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Abbiamo veramente bisogno dell’identità? Alcune precauzioni per l’uso di un concetto ambiguo Enrico Caniglia
The essay critically discusses some theoretical and empirical aporias that characterize the sociological concept of identity. In particular, it highlights the common sense origin of the category of identity and the characteristics of essentialism and realism that characterize its psychological root. Finally, it puts forward forwa rd an alternat alte rnat ive way wa y of research resea rch according accord ing to t o which whi ch the th e identi id entity ty no n o longer lon ger ident i denties ies a real group g roup but a discursive practice.
Usi e abusi del concetto d’identità
Confesso di nutrire da un po’ di tempo parecchie perplessità sull’uso del concetto d’identità così come viene impiegato nei lavori lavori sociologici. Mi M i sembra un concetto tautologico, assai poco analitico e di scarsa utilità conoscitiva. Certo, riconosco che le teorie dell’identità hanno avuto il grande merito di introdurre spiegazioni attente agli aspetti culturali e quindi di fornire un’alternativa alle prospettive economicistiche e alla teoria della scelta razionale, arginando così quella fastidiosa tendenza a concepire l’agire sociale come mero ries so di processi economici o come esito di mosse strategiche. Tuttavia, la mia sensazione è che la ricerca sociale abbia ormai poco da guadagnare dall’uso di questo concetto e che se proprio non si riesce a resistere alla tentazione di assumerlo come tema d’ d’analisi, anal isi, date le sirene della dell a moda, occorra stare attenti a evitare quelle aporie che sgorgano copiose anche nei lavori che studiosi di chiara fama hanno dedicato all’argomento. Ammetto di essere provocatorio, ma pensare con la propria testa non ha mai fatto male a nessuno. Chiarisco subito che la mia critica ha poco a che fare con i pericoli dell’identità assoluassolutizzata (Remotti 1998), ma riguarda l’uso del concetto nella ricerca e nell’interpretazione dei fenomeni sociali. Se si vogliono illustrare le ambiguità del concetto d’identità non c’è che l’imbarazzo della scelta. Comincio, innanzitutto, con dire che la concezione sociologica dell’identità dell’identità non si discosta tanto t anto dalla dal la denizione deni zione ordina ordinaria, ria, rap SOCIETÀ MUTAMENTO POLITICA, ISSN 2038-3150, vol. 4, n. 8, pp. 201-217, 2013 www.fupress.com/smp – © Firenze University Press
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presentando così un ennesimo caso di uso inconsapevole del senso comune nel lavoro scientico. Nel senso ordinario del termine, “identità” signica “ugua le a se stesso”: l’identità di una persona allude al fatto che ogni persona è unica
e distinta da tutte le altre. Anche i gruppi hanno la loro identità, per cui ogni gruppo è qualcosa di unico e di distinto dagli altri gruppi, e in questo caso si parla di “identità collettiva”. Sotto quest’aspetto l’identità collettiva non è al tro che una metafora utile per parlare di gruppi o collettività come entità a sé stanti: esattamente come gli individui, anche i gruppi sociali avrebbero le loro identità, vale a dire i loro conni, i loro tratti costitutivi e distintivi che per -
durano nel tempo. Insomma, individuale o collettiva che sia, l’identità indica una sorta di “medesimezza” che denisce un individuo o un gruppo e lo ren de distinto da tutti gli altri. Fin qui tutto chiaro: io sono Enrico Caniglia, sono
una persona unica, non ci sono cloni o replicanti in giro, ho quindi la mia identità. Anche una nazione – gli italiani – è qualcosa di unico e distinto dalle altre – cinesi, francesi, tunisini, tedeschi etc. – quindi ha la propria identità. Fin qui il senso comune. Passando all’impiego analitico, ecco arrivare subito i problemi. Innanzitutto, non ogni possibile caratteristica sociale assurge al rango di base per l’identità: sfogliando i saggi di sociologia dicilmente ci imbatteremmo in lavori che trattano dell’identità di “passante” o di “vicino di casa”. Di fatto, il termine “identità” è riservato a una lista ben precisa di fenomeni che ricalcano esattamente le “variabili sociologiche” così come sono illustrate nei manuali di sociologia: il genere sessuale (identità maschile, iden -
tità femminile etc.), la classe sociale (identità operaia, identità borghese etc.), il ruolo lavorativo (professionisti, quadri, artigiani etc.), l’età (l’identità giovanile, gli adulti, gli anziani etc.), l’etnia (hutu, yoruba etc.), la nazione (italiani, irlandesi, tedeschi etc.), l’appartenenza politica (comunisti, liberali, conservatori etc.). Se, per i sociologi, gli individui possiedono un’identità è perché sono partecipi di processi di appartenenza rispetto a una lista ben precisa d’identità che, nella maggior parte dei lavori sociologici, riguarda etnie, nazioni, generi sessuali, minoranze linguistiche o regionali e cose del genere. Se quello che dico è vero, ciò signica che il concetto d’identità non fa altro che richiamare le articolazioni costitutive di ciò che la sociologia denisce la “struttura sociale”, vale a dire quell’insieme di variabil i sociologiche che determina i fenomeni sociali, e quindi il complesso di aspetti che vanno attenzionati
nella ricerca sociale. La struttura sociale è implicitamente intesa come un insieme di fenomeni dati e costitutivi della realtà sociale. Le identità – sessuale, etnica, nazionale, d’età (giovane, adulto etc.), di genere etc. – diventano allora fenomeni esistenti “lì fuori nel mondo”, sono “i fatti naturali della vita” cui lo studioso può far procuamente riferimento per rendere conto di quanto
succede. L’identità si trasforma così in una risorsa per spiegare i fenomeni sociali. I comportamenti e le caratteristiche degli individui sono assunti come
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una meccanica conseguenza della loro identità. Perché quell’individuo vota per un partito di sinistra? Semplice, perché è di sinistra. Perché quella donna ha posizioni rigide in campo morale? Semplice, perché è di estrazione popolare. Perché esistono tensioni sociali nell’area di Belfast? Semplice, perché vi convivono identità religiose dierenti. Perché sono scoppiati i conitti nell’ex
Jugoslavia? Semplice, perché vi erano diverse identità etnonazionali; e così via. Questo modo di elaborare interpretazioni e spiegazioni sociologiche non è poi così diverso dal procedere di senso comune che potremmo sentire in una chiacchierata al bar o in un comizio politico. Nella vita ordinaria, quando
vogliamo spiegare il comportamento di qualcuno, una procedura comune è di chiamare in causa la sua identità. Insomma, descrivere “chi qualcuno è” è un modo suciente e comprensibile per spiegare perché fa certe cose: se una
cara amica ci sconcerta per quanto è scostante nelle sue decisioni, basta dire che è una “donna” per spiegarci il suo agire, e così via. La sociologia costruzionista e postmoderna si discosta dalla “sociologia delle variabili” e dalla sua concezione della realtà sociale come un insieme di
elementi dati (struttura sociale), tuttavia non mi pare che abbia più di tanto riformulato il tema dell’identità. Certo, l’accento è posto sulla natura costruita, uida e in mutamento dei fenomeni sociali contro ogni assunzione strut turalista e statica, per cui molti costruzionisti aermano, ad esempio, che le identità non sono da intendere come qualcosa di naturale e sso, ma che al contrario sono “costruite” e “essibili”. Tale processo sarebbe spesso subordi -
nato a interessi di dominio, ma in molti casi assumerebbe invece la forma di una mobilitazione a ni emancipatori, insomma i movimenti sociali. Non è un caso che l’interesse dei sociologi costruzionisti verso l’identità si
sia sviluppato a seguito della stagione dei nuovi movimenti sociali – femminista, afroamericano, omosessuale etc. – e del revival delle minoranze – etniche, linguistiche e regionali. Tale tematica ha avuto a tal punto successo che in sociologia studiare l’identità è ormai sinonimo di studiare i movimenti e le loro rivendicazioni. Per uno dei massimi pensatori postmoderni, il losofo ca nadese Charles Taylor (2001), i nuovi movimenti sociali sono essenzialmente l’espressione di lotte per il riconoscimento identitario: movimenti femministi, omo sessuali, afroamericani e le minoranze linguistiche e regionali esprimerebbero una “presa di coscienza delle persone” circa la loro “reale appartenenza sociale” – insomma la loro identità – che conduce poi allo sviluppo di un’au-
tentica consapevolezza del proprio sé. Ovviamente, le identità alimentate dai nuovi movimenti hanno poco o punto a che fare con quelle tradizionali. Il movimento femminista ha al centro del suo interesse l’identità della donna, che è comunque un’identità strutturale, e tuttavia ne contesta i tratti (stereotipi?) tradizionali per riarticolarne completamente i contenuti. Lo stesso fanno gli altri movimenti riguardo alle altre identità. Insomma, per i nuovi movi-
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menti le identità sono sempre quelle individuate dagli elementi convenzionalmente riferiti alla struttura sociale e tuttavia i loro tratti sono radicalmente rideniti (cfr. Cohen 1987). Qui cominciano i problemi. Al ne di attaccare l’idea statica di struttura
sociale che è implicata dal concetto tradizionale d’identità, i costruzionisti hanno introdotto l’idea di “ identità multiple”, “processuali” e “essibili”. Ma,
piuttosto che chiarire le cose, tale nuovo uso crea confusione e ambiguità. Parlare di “identità multiple”, “processuali” e “essibili” è un’autentica con traddizione in termini: se l’identità è ciò che è unico a se stesso, una “me desimezza”, allora non può esserci identità multipla, processuale o essibile.
I sociologi costruzionisti replicano che questo è proprio il paradosso della società contemporanea. Per i costruzionisti particolarmente interessati alle periodizzazioni storiche – per intenderci quelli che parlano di “modernità”, “postmodernità”, “contemporaneità” – il riferimento all’identità serve a comu -
nicare l’idea secondo cui nelle società del passato ogni persona corrispondeva esattamente alla propria identità sociale: i cattolici erano cattolici, gli operai
operai, i giovani giovani, gli italiani italiani e così via dicendo. Per contro nella società contemporanea o post-moderna quelle stesse identità sarebbero diventate “essibili”, “processuali” e “multiple”. Tuttavia la mia impressione è
che il concetto d’identità sia fuorviante, fuori posto, inadeguato per descrivere questi fenomeni. Se ciò che sono le persone o i gruppi è diventato un processo piuttosto che un dato sso, perché continuare a usare il concetto d’identità, che invece esprime necessariamente cristallizzazione, medesimezza e continuità? Ho quasi l’impressione che il radicalismo epistemologico di molti studiosi costruzionisti sia solo a parole, perché la loro scelta di perseverare nell’uso del concetto d’identità sembra svelare il loro desiderio di continuare a usare una certa idea di struttura sociale sebbene dichiarino di volerne fare a meno: i
fenomeni della struttura sociale (genere sessuale, classe, etnia, nazione, razza, professione etc.) restano implicitamente un riferimento fondamentale per interpretare la società. Un regalo avvelenato? Dalla schizofrenia all’identità multipla
Facciamo un passo indietro. Molti dei problemi con il concetto d’identità nascono dal fatto che i sociologi l’hanno preso in prestito dalla psicologia, per poi provare a tesserlo con quello di struttura sociale. Come spesso accade, questa mutuazione è avvenuta nel momento in cui il concetto d’identità entrava in crisi nella disciplina d’origine. Insomma, i sociologi se lo sono impacchettato e portato via con tutte le problematiche e le ambivalenze di senso che lo caratterizzavano (cfr. Spreaco 2011).
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Ma andiamo con ordine. L’identità fa parte di quella serie di fenomeni tipicamente considerati “interni” all’individuo – come le motivazioni, le emo zioni, i pensieri etc. – e che sono l’oggetto privilegiato dell’analisi psicologica. L’identità è il materiale psicologicamente costitutivo di una persona, una sorta di essenza individuale: ogni persona possiede alcuni tratti – proprietà costituti ve – che la distinguono dagli altri e che la accompagnano in tutte le sue azioni e nelle situazioni in cui si trova a operare, funzionando come una sorta di lo
conduttore unitario del suo comportamento. Cambiano le situazioni, i tempi e anche l’età anagraca, ma c’è comunque una continuità nella persona. Tale
continuità, nonostante il mutamento incessante, è la traccia della sua identità. Questi ragionamenti costituiscono i presupposti taciti dei tanti sviluppi nella ricerca psicologica sull’identità cui i sociologi hanno guardato n troppo
acriticamente. Ovviamente il concetto d’identità personale interessa poco o punto alla gran parte della sociologia. Essendo interessati al sociale piuttosto
che a quanto succede nella psiche individuale, i sociologi portano il concetto dal livello micro a quello macro, insomma dall’individuo al gruppo. Ciò è avvenuto principalmente tramite la psicologia sociale. Innanzitutto, per la psicologia sociale molte delle proprietà psico-identitarie non sono uniche della persona, ma possono riettere particolari aspetti socialmente derivati: è
l’identità sociale di un individuo1. Si tratta di una sorta di concetto-ponte chiamato a mediare fra identità (personale) e struttura sociale. Ad esempio, l’identità femminile è qualcosa di socialmente derivato ed emerge in tutte le situazioni in cui una donna si trova a operare, guidandone l’agire, le preferenze e gli orientamenti. In particolare, la Teoria dell’alloggiamento del sé insiste sul fatto che certe relazioni sociali (il matrimonio, ad esempio) forniscono ai partecipanti un senso più netto e coerente della propria identità. Per la tradizione dell’interazionismo simbolico, un ambito classico dell’incontro fra psicologia e sociologia, attraverso l’interazione con altre persone si accresce la consapevolezza del proprio sé, nel senso che l’identità nasce dall’esperienza e dall’osservazione di ciò che ci dierenzia dagli altri. Ciò vuol dire che l’identità è un’entità dialogica: lungi dall’essere un elemento dato, derivato direttamente
dalla struttura sociale e da proprietà ascritte dell’individuo, l’identità emerge dell’interazione e dal continuo confronto-dierenziazione con gli altri. Ad
esempio, interagire sempre in un certo modo e il voler costantemente apparire in un certo modo davanti agli altri arrivano a plasmare l’identità di una persona: certi tratti meramente esibiti diventano, alla ne, proprietà speciche
(interne) di quella persona. Un caso empirico, anche se limite, è rappresentato
Per una discussione critica delle teorie psicosociali presentate di seguito, cfr. Antaki, Widdicombe (1998). 1
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dai fenomeni dello stigma e dell’etichettamento. Questi processi possono agire nel senso di vincolare una persona a una certa identità – chi assume continuativamente della droga diventa per gli altri semplicemente un “drogato” e alla ne, pressato da questa denizione che emerge dall’interazione con gli altri,
l’individuo si sente tale e agisce come tale2. Le identità sociali sono viste come i riferimenti attivi di quei processi d’identicazione (un concetto tratto a piene mani nientemeno che da Freud) da cui
prendono forma le identità personali. Psicologi sociali di stampo cognitivista come Henry Tajfel (1999), ad esempio, sostengono che gli individui nascono in un gruppo (etnico, di classe, di genere e chi ne ha più ne metta) e poi col tempo arrivano a sviluppare un senso consapevole ed emozionale d’appartenenza e d’attaccamento per quel gruppo. Su tale processo d’appartenenza al gruppo gli psicologi sociali fanno derivare l’identità sociale e anche quella personale, essendo la seconda una sorta di derivato della prima: l’identità sarebbe allo
stesso tempo un fenomeno sociale, perché legato a un gruppo, e una realtà psicologica, perché costituirebbe un elemento stabile della personalità. I fenomeni del pregiudizio, della discriminazione, del nazionalismo e, perché no, del tifo calcistico, sarebbero strettamente legati a questa interiorizzazione psicologica del senso di appartenenza-identicazione a un gruppo. Lo scopo, neanche tan to nascosto, di Tajfel è di capovolgere il ragionamento classico degli psicologi:
se questi ultimi partono dall’individuo per spiegare il gruppo, i psicologi sociali partono dal gruppo per spiegare l’individuo, invitando così a nozze i sociologi. Alla prospettiva dell’identicazione sociale è inutile far notare che molti individui vivono tranquillamente senza tanto bisogno di identicarsi in grup -
pi, siano esse nazioni, razze, etnie, gruppi professionali, squadre di calcio, classi e così via. Infatti, psicologi e sociologi dell’identità ribatterebbero immediatamente che questi individui sono in preda a una “crisi d’identità” – un concetto introdotto da un altro psicologo sociale, Erik Erikson. Il bisogno
d’identità esiste e questo deve bastare come spiegazione, e se l’individuo fa tanto lo schizzinoso nel dichiarare di identicarsi con qualche gruppo, gli psi cologi sociali ribattono che comunque l’appartenenza agisce lo stesso, magari attraverso un analiticamente provvidenziale “meccanismo inconscio”. Pur troppo per loro, tale teoria del “bisogno d’identità” assomiglia troppo a quelle tautologiche spiegazioni funzionaliste criticate da Gregory Bateson: è simile
alla spiegazione secondo cui le persone mangiano patate per via del loro impellente bisogno di mangiar patate (Bateson 1988).
2
Sull’interazionismo simbolico e la devianza, cfr. Santambrogio 2003. Diversi importanti so -
ciologi italiani che si sono occupati d’identità propendono per tale concezione dialogica, ad esempio Loredana Sciolla 2003.
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Nonostante il grande successo ottenuto in sociologia, una serie di proble mi ha nito per screditare in molta ricerca psicologica contemporanea tale visione dell’identità (Antaki, Widdicome 1998; Bamberg, De Fina, Schirin
2010). Innanzitutto, dagli esempi di cui gli psicologi sociali si servono per illustrare le loro ipotesi, non si capisce bene se ruoli e identità siano la stessa cosa oppure no. In eetti, esiste un grosso lone – la teoria dell’identità di ruolo (Role Identity Theory ), non a caso strettamente imparentata al funzionalismo parsonsiano – che identica le due cose: i ruoli social i (non importa se ascritti
o acquisiti) vengono sempre interiorizzati dagli individui per diventare così la loro identità. Non sarebbe più opportuno usare il buon rasoio di Occam ed eliminare dal proprio vocabolario scientico il concetto d’identità poiché è
solo un doppione di quello di ruolo? Il problema principale del concetto psicologico d’identità è però un altro. Anche se va riconosciuto che gli psicologi sociali hanno introdotto il concetto d’identità al ne di evitare l’idea di un sé centrale e autentico, ciononostante
il termine sembra generalmente usato come sinonimo del sé. Ciò ha comportato l’aermarsi in psicologia di un’idea dell’identità che è essenzialista e realista. Essenzialista perché l’identità è ritenuta una concreta proprietà individuale o sociale, insomma una sorta di essenza che caratterizzerebbe l’individuo o un gruppo e lo renderebbe tale. Realista perché assume l’esistenza di una corrispondenza tra identità e realtà sociale, ad esempio presuppone l’esistenza di gruppi reali – una nazione o un’etnia – con tanto di conni, omogeneità in terna etc. (Antaki e Widdicombe 1992: 194). Per spiegare meglio i limiti della
concezione essenzialista e realista dell’identità mi servirò della descrizione del caso “Ronnie Kray” analizzato dallo psicologo sociale John Raban (cit. in Hannerz 1992: 392). Ronnie aveva un comportamento del tutto incoerente. Era un delinquente, un rispettabile uomo d’aari, un lantropo, un uomo di mondo, un cocco di
mamma, un patriota, un bruto dal cuore tenero, un gangster, un amico degli animali, un omosessuale e inne un elegante signorotto con proprietà terriere nel Saolk…
Il problema di Kray non consisteva nell’essere un criminale, un uomo coin volto in attività illegali, quanto piuttosto nell’essere tante persone in una: chi era veramente Ronnie Kray? Un delinquente o un amico degli animali? Qua -
le era l’essenza del suo sé? Con grande sollievo di psicologi e sociologi, Ronnie Kray venne diagnosticato come schizofrenico paranoide dagli psichiatri di un ospedale di Londra. Eppure molte delle caratterizzazioni di Ronnie Kray sono n troppo plausibili: perché non si può essere signorotto del Saolk e
amante degli animali, oppure cocco di mamma e patriota, oppure ancora
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omosessuale e gangster? Cosa c’è di sbagliato, di strano, di patologico nell’essere tante cose assieme? In eetti, se provassimo a descrivere una qualunque
persona reale e a evidenziare le sue proprietà o a tratteggiare le sue identità ci accorgeremmo che è la normalità essere tante cose assieme. Proprio su questa costatazione di semplice buon senso fanno leva i ragionamenti sull’identità multipla sviluppati recentemente dai costruzionisti. Per ragioni di spazio e per amore della semplicità, prenderò in esame a mo’ di esempio il lavoro di Amartya Sen, noto premio Nobel per l’economia reinventatosi losofo sociale con grande successo. Dice Sen,
la stessa persona può essere, senza la minima contraddizione, di cittadinanza americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz… (2006, VIII-IX).
Per fare considerazioni del genere non occorre certo essere un premio No -
bel! Prendete in considerazione una qualsiasi persona reale, anche voi stessi, e vedrete che verrà fuori un prolo da identità multipla. Ovviamente, per
quanto banali, gli esempi servono a Sen per argomentare i suoi ragionamenti contro le pretese di gruppi nazionalisti, etnici e religiosi di legittimare il ricorso alla violenza sulla base di identità assolutizzate. Tuttavia a me interessa evidenziare un’altra cosa. Come lo psicologo sociale che ha analizzato Ronnie Kray e ne ha diagnosticato la schizofrenia, anche Sen argomenta la sua ipote si elencando proprietà o identità di una singola persona, solo che l’economista si guarda bene dal parlare di schizofrenia, bensì parla d’identità multipla, un concetto che possiede ai suoi occhi un’accezione positiva. Insomma esiste la schizofrenia, come sostiene la psicologia sociale, o è invece sbagliata la pretesa di un’univocità, di una linearità identitaria, come sembra suggerire l’immagine dell’identità multipla e postmoderna tratteggiata da Sen? La ricca descrizione di Kray è elaborata in modo da far emergere contrad dizioni e incoerenze: non elenca tutte le caratteristiche del soggetto (una cosa
impossibile) ma ne sceglie alcune che, oltre a essere rilevanti rispetto agli scopi psichiatrici, “non stanno insieme” ed è ciò a produrre l’impressione d’incoe renza da cui viene fuori la diagnosi di schizofrenia. Alcune identità di Kray appaiono plausibili e tutt’altro che incoerenti: “delinquente” e “gangster” non sono in contraddizione fra loro, così come sono coerenti “lantropo e rispet tabile uomo d’aari”. Tuttavia, tutte insieme stridono fra loro e ciò spinge noi lettori ad avvalorare l’ipotesi della sua schizofrenia: non si può essere contem poraneamente gangster, rispettabile uomo d’aari, delinquente e lantropo.
Per contro, nulla di tutto ciò si riscontra nella lista tratteggiata da Sen, anzi lo
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stesso economista sottolinea espressamente l’assenza di qualsivoglia contraddizione fra le molteplici identità di un individuo. Chiediamoci però che tipo d’incoerenza caratterizza Ronnie Kray. L’accu sa d’incoerenza sottintende che lui non potesse essere tutte queste cose assieme. Qui si apre un problema: sono possibili, e plausibili, due diverse valutazioni delle incoerenze di Kray. Innanzitutto, Ronnie poteva essere semplicemente
un bugiardo, o meglio un criminale che amava esibire una rispettabilità apparente. La sua vera identità – l’essenza che ne costituisce il suo essere – era di essere un criminale e le altre erano solo abili nzioni, identità apparenti e meramente strumentali: Kray era un gangster che si era costruito l’immagine di rispettabile uomo d’aari dedito alla lantropia e alla cura degli animali. Tuttavia, se questo fosse il caso, non si capisce perché denirlo schizofrenico! Deniamolo un imbroglione, uno scaltro criminale, ma non qualcuno carat -
terizzato da turbe psicologiche profonde. Il riferimento alla schizofrenia fa invece pensare che per gli psichiatri le cose stavano in modo diverso: l’idea del
sé come essenza, e dunque come qualcosa di coerente, fa dire che, poiché lui era tutte quelle cose assieme, allora era schizofrenico. L’analisi psicologica di Kray prosegue su questo tenore accennando a vere e proprie “interpretazioni” di ruoli o messe in scena di Ronnie: «aveva voce e
viso diversi per ogni tipo di pubblico, e coloro che assistevano alla sua interpretazione di un ruolo non avrebbero mai supposto l’esistenza di altri» (Raban cit. in Hannerz 1992: 392). Tuttavia anche in questo caso non ci sarebbe
nulla di strano o di patologico. È nota la critica puntuale e senza scampo che Erving Goman fa della teoria psicologica del sé. Per il sociologo canadese, ciò che genericamente si denisce “identità”, non sarebbe altro che un eetto
drammaturgico emergente da una scena rappresentata, insomma un ruolo recitato davanti a un pubblico (Goman 1969: 225). La vita sociale è costitu ita da un uire di situazioni sociali dierenti, in cui le persone sono vincolate
a impersonare una pluralità di sé diversi – padre, professore, marito, cliente di un negozio, passante e così via dicendo. L’appiattimento dell’individuo a un solo sé, lungi dall’essere la normalità, è un caso eccezionale, limitato a quelle situazioni estreme rappresentate dalle istituzioni totali. Le istituzioni totali privano gli individui dei normali congegni per la “cura e la presentazione del sé” – libertà nel vestire, nell’acconciare i capelli etc. – e li connano sica -
mente all’interno di una sola situazione isolandoli dal resto della vita sociale. In questo modo, esse fabbricano le identità monocordi di “malato mentale”, “ricoverato ospedaliero”, “soldato”, “monaca di clausura”, “detenuto” etc. 3.
Comunque neanche nelle istituzioni totali l’appiattimento a una sola identità avviene in modo completo, perché gli individui riescono sempre a ritagliarsi ambiti nascosti – che Goman in 3
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Non solo. Poiché, secondo la nota metafora teatrale usata da Goman, l’identità è una parte che una persona rappresenta a benecio dei presenti, allora si tratta di qualcosa che le persone fanno e non che le persone sono:
non si è una certa persona (italiano, professore, uomo, adulto etc.), ma la si fa. Poiché nella vita sociale le persone sono chiamate a impersonare identità diverse, esse si comportano in modo diverso in situazioni diverse: ad esempio,
si comportano in un certo modo nei luoghi di lavoro e in un modo del tutto diverso quando sono in famiglia o nel tempo libero. Un avvocato parla in modo formale, veste in modo formale, si atteggia in modo formale nel suo studio in presenza dei propri assistiti. Per contro, quando è invece nella sua famiglia, con i gli, o la sera in compagnia di amici, si comporterà in modo informale: riderà, scherzerà, sarà insomma “rilassato”. Chi è veramente quella persona? Qual’è la sua vera identità? L’individuo formale esibito nell’ucio di lavoro o
la persona rilassata e leggera che scherza con gli amici? In realtà è sbagliato cercare l’identità in termini di essenza interiore posseduta dalla persona e che plasma coerentemente le sue azioni nelle diverse situazioni: il sé è piuttosto una presentazione performata in una specica situazione, e che quindi varia passando da una situazione a un’altra. Qualsiasi individuo avrà “ voce e viso diversi ” per le diverse situazioni. Tali “interpretazioni” non sembrano un motivo suciente per denire qualcuno come “schizofrenico”, ma fanno parte della
normale vita sociale. Al ne di superare le aporie della concezione essenzialista dell’identità, Goman propone di sostituire il concetto di “sé” con quello di “presentazione del sé”, un concetto molto più utile per la sociologia. La “presentazione del sé” è qualcosa che viene performato, che può cambiare in base alla situazione, che può essere sdato e messo in discussione, che è pubblico (esterno e visibile) e non “interno” (mentale e psicologico). Insomma, non ha nessuno dei l imiti di
essenzialismo, di cristallizzazione e d’internalità che sono tipici del concetto d’identità personale così com’è stato elaborato inizialmente dalla psicologia. L’identità va allora intesa come una realizzazione pratica e localmente situata: chi noi siamo è qualcosa che viene esibito, comunicato, realizzato attraverso pratiche simboliche e che varia nelle diverse situazioni. La coerenza dell’identità che percepiamo nel senso comune, e che gli psicologi e i sociologi postulano ingenuamente, è l’esito della strutturazione delle situazioni sociali in palcoscenico e retroscena (Goman 1969).
dica come la “vita sotterranea” – in cui rigettano tale identità e provano a orire una diversa presentazione di sé (Goman 1968).
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Contro l’identitarismo di senso comune
Le argomentazioni condotte dovrebbero indurci a dare ragione a Sen e a tutti i teorici postmoderni circa la loro ipotesi d’identità multipla, costruita, processuale etc.. In realtà, l’idea d’identità avanzata dai postmoderni non è quella gomaniana appena citata, ma è piuttosto derivata dal senso comune e di questa possiede ancora tratti realistici . Innanzitutto, l’identità multipla
così come viene illustrata da Sen e da altri teorici postmoderni, non mi pare aatto una caratteristica specica e unica dell’uomo contemporaneo. Pensare
all’identità multipla come una novità della contemporaneità rivela una grave assenza di consapevolezza storica. A leggere i lavori degli storici non sembra che nel passato le cose andassero in modo tanto diverso. Quella del “conta dino medievale”, ci dirà uno storico, è stata pur sempre un’identità “fragile”, “multipla” e “processuale”4.
In secondo luogo, i postmoderni condividono il presupposto di senso comune secondo cui le identità indicano appartenenze a gruppi reali, a collettività esistenti nel mondo. Quando, ad esempio, si parla d’identità etniche, razziali e nazionali, chiunque pensa che si stia parlando di etnie, razze e nazioni intese come gruppi reali, come collettiv ità dotate di conni, d’omo geneità interna e di capacità di permanere nel tempo. Insomma gruppi veri e propri. Come succede per tanti altri concetti derivati dal senso comune, anche a proposito del concetto d’identità gli approcci sociologici riproducono il medesimo orientamento sostanzialista che domina la conoscenza ordinaria. Nei lavori dei sociologi postmoderni sulle identità multiple e co struite, le identità restano dunque concepite come appartenenze a gruppi realmente esistenti, e il ragionamento di Sen ne è un chiaro esempio: «la cit tadinanza, la residenza, l’origine geograca, il genere, la classe, la politica,
la professione, l’impiego, le abitudini alimentari, gli interessi sportivi, i gusti musicali, gli impegni sociali e via discorrendo, ci rendono membri di una serie di gruppi. Ognuna di queste collettività, cui apparteniamo simultaneamente, ci conferisce un’identità specica» (Sen 2006: 6, corsivi miei). I costruzionisti rigettano l’ essenzialismo poiché sostengono la natura costruita e multipla dell’identità, ma
non mettono in discussione l’idea che a un’identità corrisponda un gruppo reale (realismo ). In altre parole, il gruppo resta il referente concreto del termine identità, oltre che la base dell’identità individuale alla maniera di Tajfel o di altri psicologi sociali.
4
Si pensi alla «perversa ubiquità» di Pierre Clergue che Emanuel Le Roy Ladurie tratteggia nella sua storia etnograca della cittadina medievale di Montaillou (1995): parroco, eretico
albigese, dongiovanni, nobile arrogante, capo clan, tenero amante e così via.
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Naturalmente per Sen e gli altri postmoderni sono tanti i gruppi cui gli
individui appartengono e non esistono appartenenze esclusive, per cui la razza, la religione, l’etnicità o la nazionalità non possono pretendere di essere identità preminenti, come invece sostengono le ideologie etniche o le culture discriminatorie. Non voglio minimamente negare l’obiettivo “progressista” che guida la riessione di Sen, tuttavia il suo tentativo continua a essere for temente viziato da una concezione realista dell’identità che alla ne crea con -
traddizioni insanabili nel suo ragionamento. Nei suoi lavori più recenti, il sociologo Roger Brubaker ha denito “gruppi smo di senso comune” la credenza secondo cui, poiché si parla di etnie, razze
e nazioni, a tali termini corrispondano gruppi che esistono realmente (2002). Riprendendo tale prospettiva, parlerei di “identitarismo di senso comune”, per
denunciare l’idea ordinaria secondo cui siccome si parla d’identità – donne, giovani, italiani, africani etc. – allora a tali identità debbano corrispondere gruppi che esistono concretamente. A mio avviso, le identità non sono altro che pratiche discorsive, e il fenomeno sociale rilevante non sono tanto i gruppi concreti che tali termini designerebbero, quanto invece i termini stessi, intesi come classicazioni incorporate all’interno di pratiche sociali discorsive 5. Le “identità” non sono altro che il “discorso dell’identità” che nei contesti ordinari
e politici viene impiegato per raggiungere scopi pratici. Se ho ragione, sarebbe fuorviante e scarsamente produttivo interrogarsi sull’ontologia delle “identi tà”. Occorrerebbe invece dedicarsi allo studio delle “pratiche discorsive sulle identità”, all’analisi degli usi molteplici e pratici del “vernacolo identitario” co stituito dai termini di etnia, razza, nazione, uomo, donna etc.. Vediamo come. Quando parliamo d’identità occorre fare attenzione che «stiamo prenden do in esame in primo luogo una categoria. Non gruppi. La maggior parte delle categorie (donne, anziani, negri, ebrei, teenager etc.) non sono gruppi nel
senso in cui normalmente si parlerebbe di gruppi, e ciò che abbiamo è una massa di conoscenza su ogni categoria» (Sacks 2010: 96). Chiamiamole per brevità categorie d’identità. Qualsiasi persona può essere descritta, e sempre correttamente, ricorrendo a un numero indenito di categorie d’identità per cui
occorre decidere quale sia quella pertinente in base alla situazione o agli scopi che si vogliono raggiungere attraverso la descrizione. L’interesse sociologico va rivolto all’evidenziare una sorta di grammatica di senso comune con cui sono ordinariamente usate tali classicazioni ordinarie. Tale grammatica di senso non solo attribuisce ordine all’uso discorsivo dei termini identitari, ma
grazie a tale grammatica il loro uso diventa lo strumento con cui diamo un senso condiviso al mondo. 5
Sul rapporto fra classicazioni e identità sociali, mi per metto di rimandare a Caniglia 2013.
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Molte delle aporie presenti nell’uso sociologico del concetto possono essere facilmente superate se si passa a questa concezione meramente discorsiva e pratica dell’identità. Ho prima mostrato come la lista delle identità di Kray ci
appaia incoerente ed è tale incoerenza che fa parlare di schizofrenia. Ma la lista è incoerente rispetto a cosa? Da dove vengono e quali sono i criteri in base ai quali giudichiamo incoerenti le diverse identità di Kray? Inoltre, perché Sen, ma anche noi concorderemmo con lui, denisce coerenti le liste d’identi -
tà di cui si serve per illustrare la sua idea d’identità multipla? Che cosa li rende coerenti? La mia risposta è che esista una grammatica di senso comune, una serie di convenzioni culturali speciche del patrimonio di senso comune di
una società, che disciplina l’uso delle categorie d’identità e ne stabilisce le aspettative legittime. Per tornare al caso di Kray, nei nostri stereotipi di senso
comune, ed evidentemente anche in quelli degli psichiatri e degli psicologi sociali, i delinquenti sono brutti e cattivi e non dei ranati gentiluomini; non
ci aspettiamo che un gangster sia un cocco di mamma o un amante degli animali. La descrizione di Kray evidenzia una violazione della grammatica
identitaria che è alla base della percezione d’incoerenza della sua identità. La grammatica di senso comune raggruppa le identità in collezioni o classicazioni sociali ordinarie: ad esempio, italiani, francesi, cinesi e tunisini sono identità che fanno parte della collezione “nazioni”, mentre bianchi, neri e asiatici, fanno parte della collezione “razze”; romeni, kossovari e tirolesi fanno parte della collezione “etnie”; uomo e donna sono identità che fanno parte della collezione “genere sessuale”; veneto, siciliano, lombardo sono iden tità che provengono dalla collezione “regionalismi” e così via dicendo. Tutte le identità raccolte in una collezione sono generalmente autoescludentesi: non
si può essere contemporaneamente uomo e donna o bianco e nero. Categorie provenienti da collezioni diverse invece non si autoescludono: un individuo
può ovviamente essere descritto con categorie provenienti da diverse collezioni. Ad esempio, io posso essere descritto come italiano (nazione), siciliano (regione), uomo (genere sessuale), professore (professione), appassionato lettore di Lovecraft (tempo libero) senza che ciò crea incoerenza. Tornando ai nostri esempi, la lista identitaria di Sen appare coerente perché è attenta a non mettere insieme identità della stessa collezione ma si limita a elencare categorie di collezioni diverse. Le collezioni non sono però l’unico aspetto della grammatica delle identità. Essa disciplina anche ciò che i membri di quell’identità possano legitti mamente fare, e quindi determina cosa ci aspettiamo normalmente da certe identità e cosa invece è una violazione. Certi comportamenti, valori, convinzioni, motivazioni, aspetti esteriori e così via dicendo sono predicati (aspetti convenzionalmente attesi) di certe identità ma non di altre. Ad esempio non si può essere membri di una rigida setta religiosa e, contemporaneamente,
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appassionati giocatori d’azzardo. Una cosa escluderebbe l’altra. Ciò invece succede nella lista delle identità di Kray e proprio da ciò ne nasce il giudi zio di schizofrenia: non ci aspettiamo che un gangster possa essere anche un patriota o un lantropo perché non rientra nel nostro stereotipo di gangster.
Tuttavia tali aspettative sono solo stereotipi socialmente condivisi. In altre parole, l’incoerenza è dentro il nostro modo convenzionale, ordinario, di de nire le cose. Non è detto che la realtà debba per forza assumere tale coerenza
convenzionale, corrispondere necessariamente al nostro senso comune. Anche se fosse l’esperienza del mondo a dettare tale “grammatica” delle
identità e dei loro predicati, nulla esclude che le esperienze future non possano smentirla. L’appello all’esperienza, un aspetto spesso evocato nello studio del senso comune, non vuol dire che la grammatica identitaria si aggiorni e quindi le conoscenze ordinarie siano uno specchio del mondo. Il senso comune non è mai un mero specchio dell’esperienza, ma è essenzialmente un modo per dare sempre senso all’esperienza. Qualora accada un evento che smentisce il senso comune, noi spesso non aggiorniamo le nostre conoscenze ordinarie bensì lo consideriamo un caso strano, un’eccezione, e in tal modo manteniamo i nostri stereotipi. Ronnie Kray smentiva le nostre conoscenze ordinarie su cosa le
persone possano essere e possano fare, ma ciò non ha spinto gli psicologi ad aggiornarle e o modicarle, bensì è stato classicato come uno schizofrenico,
insomma come un caso eccezionale e deviante. Le nostre conoscenze ordinarie sono state fatte salve. Una proposta: studiare l’identità senza gruppi C’è un po’ d’ingenuità nel modo in cui la sociologia aronta il fenomeno
dell’identità e che la prospettiva costruzionista non è riuscita a superare. I sociologi non capiscono che il discorso delle identità è essenzialmente una pratica ordinaria che serve a fare il mondo piuttosto che descriverlo. Ciò vuol dire che quando se ne appropriano e cominciano ad assegnare identità a destra e a manca, niscono anche loro per partecipare alla costruzione del mondo e
non alla sua descrizione e conoscenza. Ad esempio, le categorie ordinarie di nazione, etnia e razza non sono mere designazioni neutrali di fenomeni, ma sono strumenti fondamentali per la costruzione di nazioni ed etnie, per cui nel momento in cui uno studioso comincia a usarle come categorie analitiche nisce per partecipare attivamente a quei processi di reicazione.
L’origine ordinaria delle categorie d’identità fa sì che esse non siano meri strumenti analitici per descrizioni disinteressate, come pretendono i sociologi, ma categorie valutative che producono conseguenze nel mondo e per questo motivo sono oggetto di dispute nella vita sociale. Una scelta piuttosto che
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un’altra produce conseguenze per quelle persone6. Pensiamo alla schizofrenia. Anche la schizofrenia è un’identità. Gli psicologi sociali assegnano ad alcune persone tale identità come se si trattasse semplicemente del riconoscimento di uno stato oggettivo d’un individuo. In realtà tale denizione è sempre oggetto di controversie fra specialisti: per ogni caso considerato esistono disparità di
giudizio fra gli psichiatri. Inoltre, non è una descrizione disinteressata perché produce importanti conseguenze sulle persone cui si applica (Berard 2005):
può diventare uno stigma che può continuare a esistere persino quando, anni dopo, i sintomi sono cessati; può essere una ragione per rinchiudere in un’istituzione totale un individuo senza la sua volontà; nelle mani di un abile avvocato può diventare una ragione per mitigare la colpa o la responsabilità del soggetto per i propri misfatti criminali7. Come la schizofrenia, anche assegnare a un individuo un’identità etnica o una nazionale è qualcosa che ha conseguenze per lui e il suo mondo. Pensiamo al problema della denizione dell’identità basca in Spagna. Mentre i baschi si autodeniscono una nazionalità, gli spagnoli li deniscono una minoranza etnica. Le due denizioni hanno conseguenze dierenti. L’identità nazionale
è un modo per dare legittimazione a una certa azione politica e precisamente l’indipendenza di quei territori, mentre l’identità etnica è un modo per delegittimare ogni rivendicazione d’indipendenza, per cui denire l’identità dei
baschi non è una semplice operazione di registrazione di un fatto oggettivo, bensì qualcosa di socialmente controverso e carica di conseguenze rilevanti. Mettiamoci ora nei panni di un sociologo che vuole studiare i baschi: se li descrive come un’etnia, si farà complice della politica anti-indipendenza del governo di Madrid; se invece li denisce una nazione allora parteciperà alla
costruzione della nazionalità basca. In ogni caso la sua posizione sarà politica, pregna di conseguenze signicative sul suo oggetto di studio, e dunque
tutt’altro che una descrizione oggettiva e avalutativa. La mia impressione è che la sociologia convenzionale non arrivi a cogliere tale problematica, nendo così per farsi inconsapevole strumento di una li nea politica o del potere di qualcuno. Per contro la sociologia postmoderna è consapevole di ciò, e tuttavia invece di porvi rimedio, accetta la sda dell’im pegno politico, parla disinvoltamente d’identità di genere e d’identità etniche, d’identità multiple e d’identità deboli, al ne di schierarsi a difesa di cause
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Anche le identità che si riferiscono all’età – giovane, adulto, anziano – e che i sociologi usano
senza alcuna parsimonia, condando nella loro natura “oggettiva”, “naturale” e “meramente descrittiva”, sono tutt’altro che moralmente neutre o prive di conseguenze sulle persone.
Ciò non funzionò con il nostro Ronnie che fu condannato all’ergastolo, anche se grazie agli sforzi dei suoi avvocati e dei suoi periti psichiatri evitò il carcere e passò il resto della sua vita in un ospedale londinese. 7
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progressiste ed emancipatorie. Di fatto, se all’interno dei movimenti sociali la
sociologia dell’identità ha avuto successo, è perché lì molti studiosi vi svolgono un ruolo d’intervento attivo e militante e non di mera analisi e descrizione: la
sociologia dell’identità sembra a servizio dei movimenti sociali, si fa tutt’uno con le loro rivendicazioni e i loro protagonisti. Il rischio è che così facendo tradisca il proprio mandato, che è quello di conoscere il mondo ma non di fare il mondo. Esiste un modo alternativo di studiare tali fenomeni senza cadere nel pe ricolo di reicare cosa si sta studiando, un modo per analizzare i fenomeni
dell’etnia, della nazione o del genere senza rischiare incappare nell’uso valutativo delle categorie d’identità? Personalmente sono convinto che concepire le identità come un linguaggio classicatorio piuttosto che come gruppi che
esistono realmente, può permettere di studiare questi fenomeni senza incorrere nel rischio della reicazione e del giudizio di valore. Il mio ragionamento è in
linea con quello di Brubaker (Brubaker, Cooper 2000) secondo cui lo scopo della sociologia dovrebbe essere quello di occuparsi delle identità non più intese come gruppi, ma come pratiche classicatorie socialmente condivise. Tale
prospettiva permette allo studioso di parlare d’identità senza però per questo postulare l’esistenza di gruppi reali: identità senza gruppo. Si tratta di pensare le identità unicamente come un discorso impiegato in politica o nella vita quotidiana per vari scopi pratici. In tal modo si supererebbero tutte le aporie che caratterizzano gli attuali studi dell’identità. Si pensi al caso dell’identità razziale. Quest’ultima è oggetto di un autentico paradosso: la biologia e il discorso uciale dicono a chiare lettere che le razze non esistono e quindi parlare d’i dentità razziale è tutt’altro che scientico, oltre che profondamente screditato
dai trascorsi storici del nazifascismo. Tuttavia, il discorso ordinario e, in certi paesi, anche quello legale continua a parlare di razze: si pensi soltanto al penta gono razziale in uso nei censimenti americani. Di fronte a tale contraddizione, cosa deve fare lo studioso? Se classica le persone in base all’identità razziale o parla di società multirazziali, nisce per partecipare alla reicazione di qual cosa che non esiste; se invece la bandisce dal suo lavoro, nisce per perdere di
vista un’importante categoria con cui la gente guarda e agisce nel mondo. La proposta di parlare delle identità come pratiche discorsive, dispositivi retorici, lessici politici e così via, supera il problema perché permette di studiare il fenomeno della “razza” assumendolo come un discorso, senza alcun bisogno di
postulare l’esistenza di gruppi razziali (Brubaker 2002). Lo scopo della sociologia non dovrebbe essere quello di decidere quale sia l’identità delle persone o se queste abbiano un’identità multipla o unica, perché si tratta di questioni controverse nella società e che spetta ai membri di una società risolvere, e non certo ai sociologi in quanto tali. Il suo scopo è piuttosto di indagare su un fenomeno preciso: «la disponibilità nella nostra
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cultura del concetto ordinario d’identità che appare rilevante per realizzare attività sociali, politiche e culturali» (Widdicombe e Woott 1994: 225).
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