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Mem. Descr. Carta Geol. d’It.
LXVI LX VI (2004) (2004),, pp pp.. 2727-42 42 2 figg.
Geologia, litologia, cave e deterioramento delle pietre fiorentine BASTOGI M.(*), FRATINI F.(**)
1. - INTROD INTRODUZIONE UZIONE GEODINAMICA GEODINAMICADELLA DELLA PROVIN PRO VINCIA CIA DI FIRENZE FIRENZE NELL’AM NELL’AMBIT BITO O DELL’APPENNINO SETTEN-TRIONALE L’Appennino è una catena orogenica strutturalmente complessa formatasi principalmente tra l’Oligocene superiore ed il Pliocene inferiore per impilamento di Unità tettoniche a notevole sviluppo orizzontale (falde). Questi corpi rocciosi, di provenienza alloctona, durante le fasi compressive tettoniche e metamorfiche, sono sovrascorsi a scala regionale in direzione NE-E (talora per centinaia di chilometri), subendo deformazioni duttili e fragili che hanno portato alla formazione della catena (fig. 1). L’evoluzione geodinamica dell’Appennino è stata controllata dall’interazione di due placche principali: la Placca Europea e quella Africana. In particolare, per l’Appennino settentrionale, risulta interessante il movimento di due placche minori: l’attuale Spagna (Iberia) per l’ambito europeo ed il basamento crostale dell’Italia, dell’Adriatico e delle Dinaridi (Adria) - ex Iugoslavia - per l’ambito africano. La storia geologica appenninica è legata all’interazione del margine est iberico e di quello ovest dell’Adria. La sua formazione ha avuto inizio a seguito della chiusura dell’Oceano ligure piemontese piemon tese (Creta superiore), superiore), con la conseguenconseguente collisione della Placca Europea, ovvero la terminazione orientale della placca europea (SardoCorsa) con quella africana, adriatica (Adria). Le Unità liguri originate nel dominio oceanico ligure-piemontese, si sono sovrapposte a quelle Tosco-umbre derivate dal paleomargine continentale africano. Lembi di fondale oceanico (basalti e serpentiniti delle Unità Liguridi)
sono stati smembrati e traslati a formare la catena appenninica. Durante la tettogenesi appenninica, le successioni sedimentarie mesozoiche–terziarie del dominio toscano, depositatesi sopra il basamento paleozoico, sono state deformate e suddivise in diverse Unità strutturali. La Falda Toscana si è sovrapposta tettonicamente alle unità appenniniche metamorfosate sintettonicamente, facenti parte della Dorsale Metamorfica Medio–Toscana. Verso est il fronte f ronte della Falda toscana è sovrascorso sull’Unità Cervarola–Falterona (unità Toscana più esterna, di età terziaria e composizione arenaceo-torbiditica). Qu Ques est’u t’ulti ltima ma unità unità si si sovrappone, tettonicamente, sulle Unità più occidentali del Dominio Umbro-Marchigiano-Romagnolo. Dal Miocene superiore (Tortoniano), il fronte compressivo si sposta progressivamente verso l’avampaese adriatico, preceduto dallo spostamento nella stessa direzione dei bacini di avanfossa con i relativi depositi torbiditici. Le Unità Liguridi, che traslano sopra i domini sedimentari tosco-umbri, interrompono progressivamente, ad iniziare da occidente verso oriente, il ciclo deposizionale torbiditico. Al contempo, da occidente si sviluppa una fase tettonica disgiuntiva–estensionale, responsabile dell’attuale morfologia, che causa la scomposizione dell’edificio appenninico appena abbozzato in un sistema di alti strutturali e di fosse tettoniche allineate in direzione della catena (NW (NW – SE). SE). I bacini depressi diventano sede di deposizione neoautoctona, marina o fluvio-lacustre, ed a occidente la fase distensiva sviluppa un magmatismo che dalla Toscana meridionale si sposta verso la Provincia Romana.
(*) CAI-Sezione di Firenze (**) CNR-Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali (ICVBC), sede di Firenze.
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. e z n e r i F n i . I . G . S a l l e d a v i t s e e n o i n u i R a 3 5 a l r e p a l r e M . G a d a t a l i p m o c e l a n o i r t n e t t e S o n i n n e p p A ' l l e d a c i g o l o e g a t r a C a l l a d o t t a r t s e , e z n e r i F i d a i c n i v o r p a l l e d o c i g o l o e g a m e h c S 1 . g i F
GEOLOGIA, LITOLOGIA, CAVE E DETERIORAMENTO DELLE PIETRE FIORENTINE
2. - I MATERIALI LAPIDEI DA COSTRUZIONE E ORNAMENTALI ESTRATTI NELL’ORIGINARIO TERRITORIO PROVINCIALE DELLA FIRENZE POST-UNITARIA Nel presente paragrafo, s’intende fornire una breve caratterizzazione geo-petrografica delle principali pietre utilizzate nell’architettura, estratte nell’originaria configurazione del territorio della Provincia di Firenze all’indomani dell’Unità d’Italia. Tali lapidei, in funzione dello specifico uso che ne è stato fatto, vengono distinti in materiali per la costruzione di edifici (es. Pietraforte), materiali per la realizzazione di elementi architettonici (es. Pietra Serena) e pietre ornamentali da rivestimento (es. “marmi” rossi e verdi). Nel prosieguo, verrà riportata la denominazione tradizionale utilizzata, per indicare il materiale lapideo ed il nome formazionale (termine geologico che permette di identificare univocamente ogni singolo litotipo). Per quanto riguarda invece la qualificazione scientifica del materiale, alla descrizione geo-petrografica si associano alcuni caratteri macroscopici quali il colore, la grana, la tessitura, etc. Ulteriori informazioni offrono un cenno storico sull’impiego del litotipo come materiale da costruzione e/o ornamentale, elencando alcuni degli edifici di maggior interesse per la sua utilizzazione, le antiche cave di provenienza e le attuali zone di estrazione. Viene pure rappresentato il comportamento in opera del materiale, considerando sia la naturale resistenza all’alterazione, sia l’efficacia su alcuni restauri effettuati in passato, elencando anche materiali di sostituzione, laddove il materiale originario non sia più reperibile. 2.1. - PIETRA SERENA 2.1.1 - Denominazione Nome formazionale: Arenarie di Monte Modino, per le cave della zona di Fiesole, Settignano, Valle del Mugnone; Macigno per le cave della zona sud-ovest di Firenze (Gonfolina e Tavarnuzze). Nomi tradizionali: Pietra Serena, Macigno, Pietra del Fossato (varietà più resistente cavata sulla destra idrografica del Torrente Mensola, Maiano ad Est di Firenze), Pietra delle colline di Fiesole, Pietraforte delle cave di Fiesole e della Gonfolina, Pietra Bigia (varietà di colore terragiallo caldo).
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2.1.2 - Caratterizzazione Descrizione geologica: roccia sedimentaria torbiditica appartenente alle formazioni del Macigno e di Monte Modino al tetto della Serie Toscana; affiora in strati anche di notevole spessore (fino ad oltre 5 m). Colore: grigio azzurrognolo al taglio fresco e da grigio chiaro ad avana per alterazione. Aspetto macroscopico: arenaria a grana medio grossa, massiva; può presentare sporadici inclusi pelitici. Classificazione petrografica: arcose litica a matrice argillosa. Età: Oligocene superiore. Distribuzione geografica: affiora lungo tutta la dorsale dell’Appennino Settentrionale e sui Monti del Chianti. 2.1.3 - Cenni Storici Sfruttata già in periodo etrusco e romano, ha avuto massimo utilizzo nel Rinascimento, in particolare nella realizzazione di colonne e di altri elementi decorativi architettonici. Edifici di maggiore interesse in Firenze: Ospedale degli Innocenti, Chiesa della Santissima. Annunziata, Cortile della Biblioteca Laurenziana, Chiostri del Convento del Carmine, Chiostro degli Aranci nella Badia Fiorentina, Porticato degli Uffizi, chiesa di S. Lorenzo, chiesa di S. Spirito. Cave antiche: Fiesole, Gonfolina. Cave attuali: Greve in Chianti, Tuoro sul Trasimeno (in provincia di PG, non troppo distante dal territorio fiorentino). 2.1.4 - Comportamento in Opera Resistenza all’alterazione: bassa resistenza agli agenti atmosferici, con alterazione sia per esfoliazione che per decoesione superficiale (28,29). Principali restauri effettuati: Santissima Annunziata. Materiali simili: Pietra di Firenzuola, Arenaria di Monte Senario. 2.2. - PIETRAFORTE 2.2.1 - Denominazione Nome formazionale: Pietraforte.
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Nomi tradizionali: Pietra forte, Macigno. 2.2.2 - Caratterizzazione Descrizione geologica: roccia sedimentaria torbiditica appartenente alla omonima formazione facente parte del Supergruppo della Calvana (Liguridi esterne); gli affioramenti si presentano in strati sottili (20 - 100 cm) intercalati ad argilliti siltose. Colore: grigio azzurrognolo al taglio fresco, ocra (“ferrigno”) per alterazione. Aspetto macroscopico: arenaria a grana fine con evidenti laminazioni convolute e frequenti vene di calcite. Classificazione petrografica: arenaria litica a cemento carbonatico. Età: Cretaceo superiore. Distribuzione geografica: le più note zone di affioramento in Toscana sono le colline a Sud di Firenze, Greve, Santa Fiora, Monti della Tolfa. 2.2.3 - Cenni Storici Utilizzata fin dal Medioevo come materiale da costruzione in conci di varie dimensioni e nel Rinascimento per la lavorazione dei conci a “bugnato”. Edifici di maggiore interesse in Firenze: Palazzo Pitti, P. Strozzi, P. Antinori, P. Medici Riccardi, P. Rucellai, P. Uguccioni, Palazzo Vecchio, Loggia dei Lanzi, Chiese di S. Gaetano, S. Trinita, Orsanmichele, Biblioteca Nazionale. Cave antiche: S. Felicita, Boboli, Costa San Giorgio, Monteripaldi (tutte nel comune di Firenze) Cave attuali: Riscaggio, (FI) e Greve in Chianti (FI). 2.2.4 - Comportamento in opera Resistenza all’alterazione: buona resistenza agli agenti atmosferici; degrado per distacco di blocchi lungo le vene calcitiche e per esfoliazione lungo le superfici di laminazione. Principali restauri effettuati: Palazzo Pitti, Loggia dei Lanzi, Chiesa di S. Gaetano, Chiesa di S. Trinita, Palazzo Rucellai, Palazzo Antinori. Materiali simili: arenaria di Sillano.
2.3. - VERDE DI PRATO 2.3.1 - Denominazione Nome formazionale: Serpentina. Nomi tradizionali: Verde di Prato, Marmo Verde di Prato, Nero di Prato, Marmo Nero, Pietra Nera detta di “paragone”. 2.3.2 - Caratterizzazione Descrizione geologica: roccia metamorfica appartenente ai complessi ofiolitici dell’Appennino Settentrionale. Colore: presenta diverse tonalità di verde, dal chiaro allo scuro fin quasi al nero, talora con riflessi bluastri; in tinta unita talora “picchiettata” o venata di giallo verdastro. Aspetto macroscopico: roccia in cui non risultano ben evidenti i cristalli; può essere interessata da un intreccio più o meno fitto di vene di crisotilo. Classificazione petrografica: serpentinite con struttura pseudomorfica a bastite, a rete e a clessidra, derivata da una peridotite di tipo lherzolitico. Età: Giurassico-Cretaceo inferiore. Distribuzione geografica: affioramenti di limitata estensione in buona parte dell’Appennino settentrionale. Nei dintorni di Firenze affiora nel Monte Ferrato (Nord di Prato) ed a Impruneta. 2.3.3 - Cenni Storici Utilizzato fin dall’XI secolo, associato a marmo e/o a calcari rossi per la realizzazione di rivestimenti policromi di edifici religiosi. Edifici di maggiore interesse in Firenze: Campanile di Giotto, facciate delle chiese di S. Maria Novella e S. Croce. Cave antiche: Figline di Prato ed Impruneta. Cave attuali: attualmente non coltivato. 2.3.4 - Comportamento in opera Resistenza all’alterazione: facile alterabilità dovuta alle discontinuità fisiche, al forte assor bimento di calore (conseguenza del suo colore scuro) alla bassa conducibilità termica ed all’elevato indice di saturazione che provocano fenomeni di decoesione a partire dagli spigoli, con successiva caduta di intere scaglie a cui fa
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seguito una vera e propria frantumazione. Principali restauri effettuati: Duomo di Firenze, facciata della collegiata di S. Andrea ad Empoli. Materiali simili: marmo Verde della Val Malenco, Verde Alpi. 2.3.5 -. Esempio di studio litologico: il “Marmo Verde” della Cattedrale di Santa Maria del Fiore
Sulla Cattedrale si riscontrano conci di ser pentinite con diverse tonalità di verde, dal chiaro allo scuro fin quasi al nero, talora con riflessi bluastri e frequentemente “picchiettate” da macchie. La struttura macroscopica può essere relativamente uniforme, interrotta da rare venuzze biancastre di serpentino fibroso (crisotilo) oppure carratterizzata da un fitto intreccio di vene chiare come nella varietà “rannocchiaia”. A livello microscopico si distinguono due varietà: la prima si caratterizza per la presenza in percentuali variabili di strutture pseudomorfiche a bastite (bastitic texture), strutture pseudomorfiche a rete (mesh texture) e strutture pseudomorfiche a clessidra (hourglass texture). Le bastiti costituiscono i relitti del processo di ser pentinizzazione di anfiboli e pirosseni mentre le strutture a rete e a clessidra testimoniano i resti del processo di serpentinizzazione dell’olivina. Composizionalmente queste strutture sono costituite da serpentino del tipo lizardite. In questa varietà sono presenti rare vene costituite da serpentino tipo crisotilo e risulta diffusa la presenza di magnetite in piccoli cristalli; è inoltre presente spinello cromifero e pirite. Nella seconda varietà prevale una struttura pseudomorfica a clessidra con una piccola percentuale di bastiti e assenza di strutture a rete. La magnetite è presente in granuli di dimensioni maggiori rispetto alla varietà precedente e ciò determina un colore verde chiaro della roccia. Le venuzze di crisotilo possono essere molto abbondanti fino ad arrivare al fitto intreccio che caratterizza la “rannocchiaia”. Riguardo alle caratteritiche petrofisiche, è stato osservato come le serpentine appenniniche a lizardite+crisotilo, che hanno una porosità compresa tra il 3 ed il 10%, siano caratterizzate da un indice di saturazione in acqua spesso superiore al 100% (FRATINI et alii, 1987,1991; DE VECCHI et alii, 1991). In BRALIA et alii (1995) si è tentato di dare una spiegazione a questo particolare fenomeno, mettendo a con-
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fronto materiale prelevato dai monumenti, con serpentine appenniniche di cava ed esposte per tempi diversi agli agenti atmosferici e serpentine di cava di origine alpina. Si è osservato che queste ultime ed il materiale di cava “fresco” di origine appenninica hanno sempre un indice di saturazione inferiore al 100%. Il modello pro posto ipotizza la presenza nei pori sub-capillari, di barriere a struttura amorfa chimicamente permeabili all’acqua ma impermeabili ai gas che si formerebbero per processi alterativi della durata di qualche centinaio di anni. Il “marmo verde” chiamato “marmum nigrum”, viene spesso menzionato nelle delibere relative agli acquisti facendo sempre, per quanto visto, riferimento al Monte Ferrato. In merito a questi “marmi” A GOSTINO DEL R ICCIO, nel manoscritto “ Istoria delle Pietre” del 1595, scrive: “Gran lustro piglia questa sorte di Serpentino di Prato, si cavano di buone saldez ze, ama stare in luoghi che non sia offeso dall’acque. ...I suoi colori son verdi non troppo accesi, il fondo della pietra è verde più buio et si trovano ancor vari serpentini sui monti di Prato...”.
Il Verde utilizzato per l’impianto originale della Cattedrale proviene da Figline di Prato (Prato). 2.4. - MARMI ROSSI 2.4.1 - Denominazione
Nome formazionale: Marne del Sugame. Nomi tradizionali: Marmo Rosso di San Giusto a Monterantoli, Marmo Rosso di Monte Sommano, Marmo Mistio. 2.4.2 - Caratterizzazione Descrizione geologica: roccia sedimentaria carbonatica appartenente alla formazione degli Scisti Policromi della Serie Toscana. Colore: presenta colori variabili dal rossoviolaceo al rosso fegato (maggiormente impiegato nelle opere) al rosa-giallastro. Aspetto macroscopico: calcari marnosi con intercalazioni di livelli lenticolari di biocalcareniti grigie a macroforaminiferi; presentano sottilissime vene di calcite micritica subperpendicolari allo strato, talvolta interrotte da fratture cementate da calcite spatica. Sono frequenti bioturbazioni e venette di colore giallognolo. Classificazione petrografica: wackestones e
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raramente packstones e grainstones Età: Albiano-Eocene medio. Distribuzione geografica: le principali zone di affioramento in Toscana sono i Monti del Chianti e il Colle di Monsummano. 2.4.3 - Cenni Storici Utilizzate fin dall’ XIV secolo, associate a marmo bianco e a Verde di Prato, nella tricomia dell’architettura medioevale fiorentina Edifici di maggiore interesse in Firenze: Duomo, Campanile di Giotto, facciate delle chiese di S. Croce e di S. Maria Novella, chiesa di S. Lorenzo alla Certosa di Firenze. Cave antiche: S. Giusto a Monterantoli, Monsummano Cave attuali: attualmente non più coltivato. 2.4.4 - Comportamento in opera Resistenza all’alterazione: i fenomeni alterativi si esplicano per fessurazioni, scagliature, erosioni, imbiancamenti superficiali Principali restauri effettuati: Duomo di Firenze, Chiesa di S. Croce. Materiali simili: Rosso Collemandina. 2.4.5 - Esempio di studio litologico: il “Marmo rosso” della Cattedrale di Santa Maria del Fiore
Un primo esame macroscopico del “rosso” evidenzia la presenza di due diverse tipologie. Poiché, in letteratura e nei documenti d’archivio, non vi era accordo unanime sulla provenienza del materiale, in questi ultimissimi anni sono state condotte varie ricerche, (S ARTORI, 1996; VANNUCCI et alii, 1997; FAZZUOLI et alii; 1998; SARTORI, 1998), che hanno permesso la precisa identificazione litologica. I “rossi” sono stati quindi attribuiti alle Marne del Sugame affioranti a San Giusto a Monterantoli (Cintoia, Greve in Chianti-Firenze) e alle Marne del Sugame affioranti a Monsummano (Pistoia). Le ricerche, condotte sia sui “rossi” presenti nei paramenti di Santa Maria del Fiore, come pure su Santa Maria Novella e le colonne della Grotta Grande nel Giardino di Boboli, hanno consentito di individuare una serie di parametri mineralogici e geochimici che consentono di identificare sia il litotipo impiegato che, in alcuni casi, le località di approvvigionamento.
Occorre precisare che i litotipi principali delle Marne del Sugame, affioranti a Cintoia consistono in calcari marnosi rosso-violacei, rosso-fegato, rosa-grigiastri, grigio-olivastri chiari, talvolta chiaramente non stratificati, a fratturazione scagliosa. La litofacies delle Marne del Sugame, affiorante a Monsummano, oltre ad avere una potenza superiore rispetto a quella di Cintoia, è composta quasi esclusivamente di calcari marnosi non stratificati. Le Marne del Sugame, presentano, a Monsummano, due litologie diverse. La prima è costituita da calcilutiti marnose rosso-fegato con frequenti bioturbazioni e fratture riempite di calcite. L’aspetto risulta simile a quello delle Marne del Sugame di Cintoia, ed è in accordo con la descrizione di A GOSTINO DEL R ICCIO. Nell’altro caso, le marne appaiono simili a calcari nodulari, in quanto forme più o meno amigdaloidi di calcare micritico più chiaro e sono contornate da un calcare marnoso più rosso. Ciò sembra essere imputabile a fenomeni di “ boudinage” dovuti a deformazioni plastiche dell’originario sedimento (FAZZUOLI & MAESTRELLIMANETTI,1973). Le Marne del Sugame, hanno un’età compresa tra l’Albiano e l’Eocene inf. medio. Dalla composizione mineralogica, si osserva che le Marne del Sugame si caratterizzano per un contenuto in calcite variabile dal 79 all’87%, quarzo dal 6 al 13%, spesso prevalente sui fillosilicati; per i feldspati sono rilevabili solo i plagioclasi. Tra i parametri geochimici il contenuto in bario appare, almeno per la maggior parte dei campioni, decisamente discriminante in relazione alla provenienza: a Cintoia si riscontrano tenori medi attorno a 1100 ppm, contro i tenori medi di circa 140 ppm di Monsummano. L’associazione dei minerali argillosi che caratterizza questo litotipo è costituita, in ordine di abbondanza, da: illite, caolinite, clorite e clorite-vermiculite. La vermiculite (minerale argilloso a reticolo espandibile e suscettibile quindi di favorire l’assorbimento di acqua) risulta sem pre assente nei campioni di cava e non sembrano esservi differenze significative fra i campioni delle due località. Le Marne del Sugame sono caratterizzate da porosità molto contenute che appaiono variare in un intervallo compreso fra il 2 e il 3,5%. L’assorbimento in acqua è basso con indici di saturazione nella maggior parte dei casi inferiori al 35%. L’essiccamento avviene in maniera molto lenta ed è importante osservare che, alle condi-
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zioni di laboratorio (T ≅ 20°C; U.R. ≤ 50%), nel campione rimane una sensibile quantità di acqua. Questo evidenzia una caratteristica decisamente negativa delle Marne del Sugame, riguardo alla durabilità. Infatti l’acqua che permane nei pori della pietra, depositatasi molto spesso per effetto di condensa e quindi notevolmente “acida”, incrementa i fenomeni alterativi di carattere chimico, quale la solfatazione del CaCO3, responsabile in questo caso, dell’im biancamento della pietra. Tutte le tipologie di degrado che interessano le Marne sono influenzate dalle loro caratteristiche tessiturali: la frequente presenza di vene, di adunamenti nastriformi, noduli calcitici etc. che rendono il materiale estremamente disomogeneo, facilitano l’aggressione da parte degli atmosferili. Ciò produce tutta una serie di fessurazioni, scagliature, mancanze, erosioni differenziali e i succitati imbiancamenti superficiali, che oltre alla azione prodotta dalla solfatazione, possono originarsi anche per liscivamento, da parte delle acque, degli ossidi di ferro responsa bili del colore rosso della pietra (FOMMEI et alii, 1993). Ancora, AGOSTINO DEL R ICCIO, scrive: “S. Giusto a Monterantoli, cava utilissima di marmo rosso che piglia pulimento e lustro con fatica, ha gran saldezza e che ha fornito marmi per il campanile e la chiesa di Santa Maria del Fiore e in particolare per la facciata di Santa Maria Novella e per molte chiese fiorentine”. “A Monsummano in Valdinievole, si cavano marmi rossi con vene bianche simili a quelli di S. Giusto a Monterantoli”, senza però precisare
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Descrizione geologica: roccia sedimentaria carbonatica appartenente alla formazione del Rosso Ammonitico della Serie Toscana Colore: dal biancastro rosato al rosso. Aspetto macroscopico: calcare nodulare a grana fine i cui noduli risultano circondati esternamente da una sottile patina di materiale argilloso di colore rosato. Classificazione petrografica: da mudstone a wackestone, bioclastici, con quantità variabili di minerali argillosi e di granuli di quarzo delle dimensioni del silt. Età: Sinemuriano-Pliensbachiano. Distribuzione geografica: le principali zone di affioramento in Toscana sono Gerfalco (GR), Avane (PI), Monsummano (PT), Sassetta (LI) e Sasso Rosso nel comune di Villa Collemandina (LU). 2.5.3 - Cenni Storici Utilizzato fin dal XIV secolo, associato a marmo e a Verde di Prato, nei paramenti esterni di importanti complessi architettonici. Edifici di maggiore interesse in Firenze: Duomo di Firenze (come materiale di sostituzione), Campanile di Giotto (nel periodo in cui era capomastro Andrea Pisano). Cave antiche: Avane (PI), Monsummano (PT), Sassetta (LI) e Gerfalco (GR). Cave attuali: attualmente non coltivato.
in quali opere sia stato impiegato (dai documenti dell’Opera di Santa Maria del Fiore, vedremo che è stato utilizzato nei paramenti laterali della Cattedrale, negli anni 1358 - ’62 - ’63 -’86). Per l’impianto originale della Cattedrale di Firenze, furono utilizzati, per il “rosso”, marne rosse di San Giusto a Monterantoli (FI) e marne di Monsummano in Valdinievole in provincia di Pistoia.
2.5.4 - Comportamento in opera
2.5. - R OSSO AMMONITICO
3. - PROBLEMI DI CONSERVAZIONE DEI DIVERSI LITOTIPI
2.5.1 - Denominazione
Le pietre sono materiali naturali che l’uomo ha sempre impiegato nella realizzazione dei monumenti scegliendole in funzione di alcune caratteristiche quali: reperibilità, lavorabilità, durevolezza. aspetto cromatico, etc.. Molto spesso la scelta ha tenuto conto solo di alcune caratteristiche come la lavorabilità, escludendo-
Nome formazionale: Rosso Ammonitico. Nomi tradizionali: Mandorlato di Verona 2.5.2 - Caratterizzazione
Resistenza all’alterazione: l’alterazione si manifesta con la perdita di continuità in corrispondenza dei livelli di ossidi che separano i noduli e conseguente distacco degli stessi Principali restauri effettuati: Duomo, Battistero di Siena Materiali simili: Rosso di Verona.
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ne altre come la durevolezza, etc.. La loro degradazione deriva da un processo naturale di trasformazione legato sia alle pro prietà intrinseche della roccia stessa (composizione mineralogica e chimica, struttura e tessitura, caratteristiche fisico-tecniche) sia all’am biente esterno in cui essa è inserita. In generale, il deperimento si esplica sempre quando la roccia si trova esposta ad agenti atmosferici, quali acqua, escursioni termiche, inquinamento, etc., che modificano i suoi costituenti minerali. La “storia alterativa” di un materiale lapideo inizia già dal momento della sua estrazione, operazione che provoca variazione delle tensioni e sviluppo di fratture latenti nella roccia, prosegue poi durante la sua lavorazione, causando microfratture più o meno superficiali che tenderanno a favorire in modo significativo, l’azione degli agenti responsabili del degrado. Una volta in opera l’azione di degrado proseguirà con alterazione chimico-fisica e chimica che possiamo definire naturali. L’alterazione è quindi un processo naturale che non è possibile evitare. Fra le alterazioni di natura fisica ricordiamo ad esempio quelle legate alle variazioni di tem peratura, ed i fenomeni di gelività. Nel primo caso si provocano variazioni anisotrope delle dimensioni dei minerali, nel secondo, la formazione del ghiaccio nella porosità sviluppa tensioni. Nell’evoluzione del degrado dei litotipi arenaci, è inoltre molto importante la frequenza con cui variano le condizioni termoigrometriche; si è osservato infatti che l’acqua di imbibizione agisce in concomitanza con gli sbalzi di temperatura; tale parametro riveste un ruolo fondamentale, come evidenziato da circostanze in cui le pietre interrate per lungo tempo, sotto poste quindi ad un notevole grado di umidità, ma non soggette a sbalzi di temperatura, si sono conservate integre sia nel loro insieme che superficialmente. Variazioni di umidità ambientale inducono invece rigonfiamenti ritmici; l’acqua che si infiltra nella porosità, induce una trasformazione dei minerali argillosi, i quali, rigonfiandosi aritmicamente con gli sbalzi di temperatura, producono, soprattutto nella Pietra Serena, processi di arenizzazione. Tutte queste azioni, portano inevitabilmente alla perdita di coesione della roccia. Di natura chimica è invece la solubilizzazione di alcuni minerali, come la calcite presente nella matrice e nel cemento che, in presenza di soluzioni acquose, per successiva evaporazione, può riprecipitare sulla superficie lapidea deter-
minando la formazione di croste. Il continuo ripetersi del fenomeno provoca la concentrazione anomala di carbonato di calcio e la formazione di una crosta che non essendo aderente al substrato ha la tendenza a staccarsi. La ripreci pitazione di calcite nei punti più vicini alla superficie provoca conseguenti manifestazioni di esfoliazione e perdita di coesione. Negli ultimi ‘30-40 anni il mutamento delle condizioni ambientali ha favorito l’accelerazione dei processi naturali di deperimento dando luogo all’insorgenza di nuove manifestazioni di degrado. Le modalità di alterazione naturale sono state oggetto di molti studi da parte dei cultori delle scienze geomineralogiche e la loro conoscenza risulta estremamente importante quando sia trasferita ai materiali costituenti un’opera d’arte poiché serve a dettare gli interventi di restauro per rallentare o impedire tali fenomeni. Affrontare i problemi relativi alla conservazione, significa per prima cosa approfondire la conoscenza riguardo alla natura costitutiva delle “pietre” e successivamente dei processi di alterazione a cui i materiali stessi sono soggetti. Una volta compresi questi meccanismi, si potranno mettere a punto adeguati metodi di conservazione. I processi di degrado si instaurano soprattutto nelle discontinuità strutturali (laminazioni, vene, etc.), pertanto è facilmente spiegabile la breve durevolezza delle arenarie. Un altro dato importante, emerso non troppo recentemente, è che la differente entità del degrado cui sono soggette Pietra Serena e Pietraforte dipende dalla quantità di minerali sensibili all’acqua, presenti nei due litotipi, in misura diversa. Inoltre, la zona lapidea interessata dalle alterazioni è quella più esterna, con spessore massimo di qualche centimetro. Nella Pietra Serena le croste raggiungono lo spessore di circa 1 cm, perché l’acqua di imbi bizione satura completamente la porosità esistente. Diversamente, la Pietraforte, che non raggiunge mai la saturazione totale della porosità, è meno interessata dalla formazione delle croste che risultano generalmente dello spessore di qualche millimetro. Il degrado nella Pietraforte quindi non avviene tanto per disgregazione o desquamazione, quanto per un distacco di blocchi in corrispondenza delle venature di calcite di riempimento, vere e proprie superfici di discontinuità, che subiscono anch’esse il processo di solubilizzazione del carbonato di calcio. Tali venature, se si trovano su blocchi in aggetto, diventano più vulnerabili perché perdo-
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no il sostegno. In atmosfere inquinate come quelle urbane, l’acqua che nei nostri climi rappresenta il maggiore fattore di alterazione, assume caratteristiche aggressive (acidità derivante dalla reazione con anidride solforica e ossidi di azoto, prodotti dalla combustione degli idrocarburi), attaccando il cemento calcitico e trasformandolo in gesso e nitrati. Il gesso, solubile, viene dilavato dalle parti esposte, mentre nelle zone riparate, concorre a formare delle “croste nere” coerenti che non permettono alla pietra di “respirare”. Si verifica così una differenza di comportamento tra esse e il materiale lapideo sottostante allorquando intervengono sollecitazioni di natura meccanica e termica. Con il procedere di questa attività sempre “nuova roccia” viene coinvolta in profondità ed il processo si ripete. La formazione di queste nuove croste è facilitata dalla decoesione del materiale sottostante; la crosta infatti rallenta lo scambio di fluidi con l’atmosfera favorendo il ristagno delle soluzioni acide tra la crosta stessa ed il substrato lapideo. La pietra è soggetta alla decoesione a seguito dei cicli di dissoluzione e ricristallizzazione attivi all’interno delle porosità, generando così tensioni interne con conseguente disgregazione del materiale. In passato si usava proteggere le pietre del costruito con sostanze grasse, olii, cere che “impermeabilizzavano” la superficie. Ci si preoccupava di garantire una manutenzione con pulizie e trattamenti periodici. Negli edifici si procedeva a periodica sostituzione dei paramenti lapidei e delle decorazioni degradate; per la Pietra Serena, secondo un ciclo medio di circa 50 anni, data la sua facilità di degradarsi, mentre per la Pietraforte si preferiva in genere “restaurarla” e veniva sostituita solo occasionalmente . Tale dato storico acquista maggiore rilevanza anche alla luce di una recente osservazione scientifica, e cioè che alcuni elementi architettonici in Pietra Serena mostrano una maggiore resistenza alle intemperie rispetto ad altri realizzati anche con la medesima arenaria. L’abitudine alla sostituzione, con il tempo è andata persa ed è cambiata anche la filosofia del restauro che oggi privilegia la conservazione. La durabilità della serpentina è già stata descritta da TARGIONI TOZZETTi (1768) e R EPETTI (1839) che ne evidenziavano la facile alterabilità. Nei conci della Cattedrale di Firenze, il degrado si manifesta dapprima con fenomeni di decoesione a partire dagli spigoli;
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successivamente si determina la caduta di estese scaglie di pochi millimetri di spessore, quindi si instaura un processo di frantumazione con distacco di frammenti poliedrici le cui dimensioni riprendono l’originaria struttura granoblastica, precedente al processo di serpentinizzazione. Ulteriore elemento di “debolezza” del materiale è rappresentato dalle vene di serpentino fibroso (crisotilo) in corrispondenza delle quali si possono verificare distacchi di frammenti anche di discrete dimensioni. Analisi chimiche e mineralogiche condotte su serpentine alterate della Cattedrale e su varietà simili provenienti dalle cave appenniniche, non hanno evidenziato differenze particolari (VANNUCCI & R OSSETTI, 1990); ciò indica che il degrado di questi materiali è essenzialmente di tipo fisico. I fattori principali che rendono questo litoti po così sensibile all’alterazione di tipo fisico sembrano pertanto i seguenti: - le discontinuità fisiche, quali le vene di crisotilo e i piani di sfaldatura delle bastiti; - la concomitanza del forte assorbimento di calore (conseguenza del colore scuro) con la scarsissima conducibilità termica, il che determina il generarsi di elevati gradienti termici tra la superficie e l’interno dei conci con conseguenti fenomeni termoclastici; - l’elevatissimo indice di saturazione in acqua; ciò determina fenomeni di rigonfiamento e conseguenti tensioni di notevole entità, come messo in evidenza da misure di dilatazione lineare (DE VECCHI et alii, 1991; BRALIA et alii, 1995). In conclusione si sottolinea che gli interventi di restauro, sui materiali lapidei, possono tentare soltanto di rallentare i processi di trasformazione limitando il contatto con i principali agenti del degrado, ad esempio, attraverso l’impiego di idrorepellenti che ostacolano l’imbibizione della “pietra”. 4. - ESEMPI DI AREE DI COLTIVAZIONE PER DUE LITOTIPI PIÙ DIFFUSAMENTE UTILIZZATI CON UBICAZIONI DELLE CAVE E PRODUZIONI STORICAMENTE INTERESSATE DALL’ATTIVITÀ ESTRATTIVA 4.1. - PIETRA SERENA Da una disamina delle fonti letterarie ed archeologiche si evince che la Pietra Serena, nell’area fiorentina, ha avuto una continuità di
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uso dal periodo arcaico, come dimostrano le stele etrusche ritrovate a Fiesole, fino al XIX secolo. E’ a Fiesole che ritroviamo le più antiche testimonianze della sua lavorazione dovute alla presenza di numerose cave storiche. Lo sviluppo dell’attività estrattiva di questa pietra è legato strettamente all’espansione urbana di Firenze, in particolare tra i secoli XIII e XV. A conferma dello sfruttamento di questa risorsa tra Fiesole e dintorni, Boccaccio riferendosi all’aspetto della città la descriveva come un’immensa pietraia che incombe su Firenze, segnata dal colore piombo delle sue cave. Le cave furono ampiamente sfruttate dagli etruschi, romani e successivamente anche dai longobardi, come provato dai materiali di spoglio riutilizzati nella cripta della Cattedrale di Fiesole. A partire dall’Alto Medioevo scarseggiano le testimonianze della sua lavorazione e bisogna attendere il Duecento, con lo sviluppo del Comune di Firenze, per ritrovare manufatti di questa pregevole pietra; furono allora aperte nuove cave, sempre nella zona collinare a nord della città, ubicate nella valle del Mugnone, a Vincigliata ed a Settignano. La crescente richiesta di questa pietra incrementò l’attività estrattiva che interessò, nel corso del Quattrocento, l’apertura di cave situate in altre aree, come quella della Gonfolina, a ovest di Firenze che, ad esempio, fornì, insieme con quella della Trassinaia (zona di Settignano), il materiale per le colonne monolitiche della Chiesa di S. Lorenzo e per il Loggiato di Piazza Santissima Annunziata. Si deve all’architetto Filippo di Ser Brunellesco l’introduzione della Pietra Serena come elemento preminente di questa nuova architettura, in particolare per l’uso di blocchi monolitici per ricavarci intere colonne e per i contrasti cromatici pietra/intonaco. Vasari ricorda ad esempio che Michelangelo utilizzò per la Biblioteca Laurenziana e la Sacrestia di San Lorenzo fregi e ornati di Pietra Serena a grana fine, con caratteristiche di particolare durevolezza, estratta nella valle del Torrente Mensola; lo stesso Vasari inoltre, a proposito degli Uffizi e della Loggia del Mercato Nuovo, sostiene che il materiale edilizio fosse costituito dalla Pietra del Fossato, un’altra varietà di Pietra Serena. Nella seconda metà del ‘500 la Pietra Serena acquistò un pregio tale che ne fu regolamentata l’estrazione; sotto lo stato Granducale furono infatti istituite le “cave bandite” che vincolavano l’utilizzo del materiale per abbellire la capi-
tale della Toscana. Le “pietre”, potevano essere estratte solo con la “regia permissione” per esternare il potere della casa regnante. Si trattava delle cave situate tra San Francesco e Fontelucente, la collina a ovest di Fiesole e al Mulinaccio, sotto Maiano, a est della città. Da questo periodo in poi si affiancò all’uso della Pietra Serena vera e propria anche quello della cosiddetta Pietra Bigia, una varietà della medesima, la cui caratteristica più evidente è una colorazione bruno-chiara e una consistenza maggiore, che la faceva preferire nel rivestimento delle facciate. Nel 1741 il naturalista TARGIONI TOZZETTI, spinto dalla confusione terminologica con cui ci si riferiva a questo litotipo, esegue uno studio di dettaglio sull’argomento recandosi direttamente a visitare le cave; in effetti, in contrapposizione all’apparente uniformità di questa pietra, gli strati di una stessa cava possono presentare notevoli differenze. TARGIONI TOZZETTI affermva che “... all’uniformità dei costituenti mineralogici contrasta la variabilità anche nello stes so strato, della quantità e della qualità del cemento...” dando un’impronta molto attuale al
suo lavoro. Questo medico e naturalista è stato infatti un precursore dei moderni studiosi riuscendo a capire da semplici osservazioni che con il nome di Pietra Serena e Pietra Bigia gli architetti del passato in realtà si riferivano allo stesso tipo litologico che si differenziava in più varietà in base al colore ed alla resistenza alle intemperie. Infatti la Pietra Serena, molto più abbondante, veniva descritta come di colore ceruleo tendente all’azzurrognolo e la bigia di colore “terra” o “leonato sudicio” tendente al bigio dovuto all’alterazione e questa era più dura e resistente alle intemperie anche se esisteva una varietà della prima forte e ruspa che resisteva benissimo allo scoperto. Quindi di entrambe le tipologie ne esisteva una varietà “ruspa”, a grana grossa e renosa, che sopportava meglio le ingiurie dell’aria ed una “fine”, con grana minuta, che era migliore al coperto. Anche rispetto alla lavorabilità allo scalpello e quindi alla tenacità ve ne erano di due tipi, la forte e la tenera; la “Bigia” tuttavia, è particolarmente resistente agli agenti esterni ed è più dura e compatta rispetto alla qualità “Serena”. Riguardo a questa ultima caratteristica si trova scritto, inoltre, che alle “forti” appartenevano le cave di Fiesole tra San Francesco e Fontelucente e al Mulinaccio sotto Maiano, dove si trovavano le cosiddette cave bandite già citate “... di cui non si sa se la Gonfolina ne
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abbia...” (TARGIONI TOZZETTI), che erano carat-
terizzate da saldezze smisurate e per cavare le quali occorreva la regia permissione. Sempre il TARGIONI TOZZETTI con un’invidia bile precisione e attinenza con le moderne descrizioni distingueva quattro varietà diverse nella serena di Montececeri e le descriveva nel seguente modo: - la prima era una pietra durissima con granuli elastici di varie misure e con cemento costituito da calcite limpida di notevole durevolezza alla lavorazione, bassa porosità e sotto gli agenti esterni pur prendendo una patina scura manteneva immutata la saldezza primitiva come dimostravano, e dimostrano, le mura dell’antica Fiesole etrusca; - la seconda era del tipo “sereno ordinario” in cui la parte clastica era più minuta, ma sem pre poco uniforme di misura; il cemento, quantitativamente più abbondante, poteva essere in prevalenza di natura argillosa, con scarso calcare, il che rendeva questa pietra più geliva e poco durevole all’esterno; - la terza era detta “sereno gentile”, con elementi clastici di misura minore ma più uniformi ed un cemento argilloso debolmente calcareo, risultava più adatta per sculture ornamentali, prendeva buon pulimento e resisteva assai specie al coperto; - la quarta era ancora “sereno gentile”, ma gli elementi clastici erano ancora più piccoli e soprattutto più uniformi e nel cemento compariva anche un certo tenore di carbonato, inoltre la pietra si prestava assai meglio per essere usata per la scultura, inoltre acquistava un ottimo pulimento, ed era dotata di buona durevolezza anche all’aperto; questo tipo di sereno gentile a cemento calcareo-argilloso non costituiva interi banchi, ma solo una facies particolare di alcuni non frequenti affioramenti della formazione arenacea. Quindi sia per la Pietra Serena che per la Pietra Bigia, si poteva individuare la varietà “ruspa”, (renosa con grana grossolana) e la varietà “fine”; si riconosceva una varietà “forte” ed una “tenera”, ma TARGIONI TOZZETTI riconobbe subito che le due pietre costituivano due toponimi merceologici dello stesso tipo litologico Ai tipi di “sereno” descritti da TARGIONI TOZZETTI, vanno aggiunti quelli citati negli antichi documenti riguardanti gli ordini dei materiali; tra questi bisogna ricordare la Pietra di Trassinaia e la Pietra del Fossato, il cui nome si può pensare semplicemente legato alla cava di provenienza e non ad un litotipo diverso dalla Pietra Serena.
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I vecchi cavatori, a proposito della Pietra Bigia, solevano dire: “la fine porta i’ bigio”, indicando con questo che la qualità “Bigia” si trova in prossimità di una “fine” (cioè di una frattura); in effetti è la percolazione lungo le fratture di acque ricche in carbonato di calcio che hanno impregnato la pietra effettuando una “cementazione secondaria” che ha conferito alla roccia una tipica colorazione “bigia” cioè ambrata e soprattutto una maggiore consistenza e durevolezza agli agenti atmosferici. E’ di Pietra Bigia l’arco di trionfo di Piazza della Libertà realizzato nel 1739 in onore di Francesco III° di Lorena per il suo ingresso a Firenze. Con l’occasione di Firenze Capitale del Regno (1865-1870), l’attività delle cave ebbe un forte incremento, non solo per dare una nuova immagine alla Capitale nascente, ma anche per l’architettura della stessa Fiesole, rimasta fino ad allora ferma all’antico impianto medioevale; nel 1870 le cave aperte sul Monte Ceceri erano 40 (su 83 per l’intero Comune). L’attività di cava cesserà definitivamente con i primi anni ’60 anche per la concorrenza con la Pietra di Firenzuola, più competitiva alla cavatura, ma di qualità molto più scadente. Le ultime cave ad essere aperte sono state quelle delle zona di Greve in Chianti (cava di Caprolo) insieme a Montebuoni e Tavarnuzze, a sud della città. 4.1.1 - Petrografia Geologicamente quando si parla di Pietra Serena si intende un’arenaria proveniente dalle formazioni torbiditiche (Oligocene Sup./Miocene Inf.) del Macigno e di Monte Modino (ABBATE & BRUNI, 1987; BRUNI & PANDELI, 1992) affioranti nell’Appennino settentrionale. Tali sedimenti sono costitute strati arenacei e arenaceo-pelitici (grana da medio grossolana a fine), con spessore da 0,5 a 5 m, alternati a livelli argillitici e/o siltitici di spessore 20-30 cm. Lo spessore massimo raggiunto dalla formazione è di 3000 m (FAZZUOLI et alii, 1985). I costituenti principali dell’arenaria sono granuli di quarzo, feldspati, miche e frammenti di rocce metamorfiche legati da una matrice argillosa e da una piccola percentuale di cemento carbonatico (calcite) di origine secondaria Dal punto di vista petrografico l’arenaria è classificata come arcose litica a matrice argillosa. Recenti studi (B ANCHELLI et alii, 1997) hanno permesso di distinguere, nell’ambito
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della Formazione del Macigno/Monte Modino affiorante nei dintorni di Firenze, le cave di provenienza in base all’associazione dei minerali argillosi presenti nell’arenaria. Tale associazione, in cui sono presenti illite, caolinite, clorite, clorite-vermiculite, è infatti legata alla posizione delle cave all’interno della successione stratigrafica: ad es., le cave delle colline a sud di Firenze (Greve, Tavarnuzze) appartengono alla parte inferiore del Macigno, invece la Gonfolina al Macigno superiore, mentre le cave della zona di Fiesole sono di passaggio alla Formazione di Monte Modino (FRATINI et alii, 2002). Inoltre a livello dei singoli strati in una stessa cava, parametri distintivi possono essere la dimensioni dei granuli, le strutture sedimentarie presenti e la quantità di cemento secondario carbonatico. 4.1.2 - Geologia del colle di Montececeri (Fiesole)
I rilievi collinari che delimitano verso settentrione la piana di Firenze formata dall’antico bacino lacustre che nel Villafranchiano occupava tutta l’area di pianura compresa tra Pistoia e Firenze, costituiscono la piccola dorsale su cui sorge Fiesole estesa in direzione appenninica (NNW-SSE) tra i rilievi di M.te Rinaldi e Montececeri. Le arenarie che affiorano al Montececeri, che hanno rappresentato per secoli una importantissima fonte di approvvigionamento per l’architettura Fiorentina (fig. 2), costituiscono una formazione sedimentaria di origine “torbiditica” di età Oligocene sup.-Miocene inf. (24 M.a.). La formazione rocciosa che costituisce l’ossatura del rilievo è formata da una sequenza di strati di arenaria, generalmente a grana medio-fine e di potenza (spessore) da 0.50 fino ad oltre 3.00 metri, intercalati con livelletti di spessore massimo 20÷30 cm, argillitici-arenacei e/o siltitici. Le arenarie presentano una colorazione grigia azzurra che passa al giallastro ocraceo quando alterate. La grana può variare tra medio-grossolana e fine. La composizione mineralogica è rappresentata sostanzialmente da quarzo, feldspati e miche legati da una matrice argillosa e da uno scarso cemento calcitico (max 10%). Recenti studi sedimentologici e petrografici (fine anni ‘80 inizio ‘90) hanno caratterizzato con più precisione la formazione rocciosa affiorante sul colle di Fiesole, attribuendola non più alla formazione del Macigno, ma a quella delle Arenarie di M.te Modino. Le due formazioni
comunque rappresentano una successione continua di analoga origine di cui le Arenarie di M.te Modino costituiscono la sequenza superiore. A Montececeri è esposta la parte stratigraficamente più alta della sequenza torbiditica (circa gli ultimi trecento metri), a “tetto” della quale ed in continuità sedimentaria sono presenti le Marne di S.Polo, che nella località affiorano in una stretta fascia sul versante nord occidentale della dorsale. La struttura geologica individua per questo rilievo un’anticlinale asimmetrica con asse diretto da NW a SE; il fianco sud occidentale di questa struttura, presenta un’inclinazione molto più accentuata (circa 40°) rispetto a quello nord orientale (circa 20°). Tale asimmetria sottolinea l’esistenza di una grande faglia o meglio, una serie di faglie “distensive” a direzione appenninica (NNW-SSE), caratterizzate da un rigetto notevole. Le discontinuità in oggetto delimitano il margine settentrionale della “depressione tettonica” mio-pliocenica (circa 5 M.a.) entro la quale tra la fine del Pliocene e l’inizio del Quaternario si impostò un lago. Queste discontinuità tettoniche che mettono a contatto la formazione rocciosa con i sedimenti fluvio-lacustri del Villafranchiano superiore (per lo più depositi di delta conoide o conoide), sono responsabili dell’affossamento della struttura con il conseguente basculamento verso NE del bacino. Un sistema di faglie trasversali di tipo disgiuntivo ha dislocato successivamente la struttura in blocchi scalati in altezza ad iniziare da quello posto in estremità nord ovest che risulta il più alto (collina di Trespiano). I blocchi successivi, da NW verso SE, sono il blocco di M.te Rinaldi-Fiesole e quello di MontececeriVincigliata. In particolare il rilievo di Montececeri risulta delimitato da due discontinuità tettoniche di tipo distensivo, parallele tra loro ed a direzione antiappenninica (NNE-SSW). Sul lato occidentale l’allineamento S.Michele a DocciaBorgunto, sul lato orientale, allineamento Maiano - asse torrente del Bucine. Morfologicamente la faglia occidentale è sottolineata dall’impluvio sul versante sud occidentale, allineato, sul versante opposto (nord orientale), con analoga morfologia. La faglia orientale lungo la quale si è impostato il corso del fosso del Bucine, mette a contatto la sequenza arenacea di Montececeri con i terreni prevalentemente argillosi dell’Unità tettonica soprastante alle stesse arenarie (argilliti del Complesso Caotico). Questa faglia arriva ad interessare il bacino fiorentino, essendo responsabile assieme
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alla dislocazione Castello-Scandicci (la faglia del Terzolle che delimita la dorsale di M.te Rinaldi- M.te Ceceri all’estremità nord occidentale), del sollevamento avvenuto nel Pleistocene medio - superiore (0,7÷1,25 M.a.) che ha portato l’area di Firenze ad innalzarsi rispetto alla restante parte del bacino. La faglia occidentale, sul versante nord orientale, si biforca dando luogo ad una discontinuità principale che segue l’asse dell’impluvio piegando in direzione di Pian del Mugnone. Il tratto più corto ad iniziare dal crinale si dirige verso est ed è responsabile della morfologia che separa il Poggio Magherini da Monte Ceceri. Questa particolare condizione tettonica, favorisce lo sviluppo di una permeabilità secondaria; tale situazione unita al fatto che sul versante settentrionale la formazione stratificata si presenta con assetto a franapoggio (piani di strato concordi alla morfologia del versante con immersioni verso N-NE, favorevoli alla conducibilità idraulica), poiché la morfologia è quella di un impluvio e che il “cuneo” di terreno com preso tra le faglie appena descritte è costituito da un lembo della formazione delle Marne di S.Polo (stratigraficamente a “tetto” delle arenarie e di spessore al massimo una quindicina di metri), dotate di una permeabilità piuttosto ridotta, viene a determinarsi il presupposto per la circolazione di acque in sottosuolo e per la loro concentrazione. E’ prova di ciò l’esistenza in corrispondenza di Borgunto, di una storica sorgente intercettata in sotterraneo forse proprio a seguito di antiche escavazioni di cava: la “fontesotterra” che ha assicurato l’approvvigionamento di acqua per il nucleo di Borgunto, dal medioevo all’inizio del secolo scorso. La stessa faglia, sul versante che guarda Firenze, determina le condizioni per l’origine della sorgente del torrente Africo così denominato in ragione della sua direzione orientata ai venti che giungono dall’Africa. 4.1.3 - Metodo di coltivazione in uso a Fiesole La collina di Montececeri, a Fiesole, è il risultato di un profondo rimodellamento operato da secoli di estrazione della pietra. Le prime notizie certe sulle cave a Montececeri si hanno a partire dal 1200, ma esiste testimonianza già in epoca etrusca e romana. Dal XIV secolo gli abitanti di Fiesole sono in maggior parte dediti al lavoro di cavatori e scal pellini nelle rinomate cave di pietra serena. La coltivazione di una cava iniziava in gene-
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re con l’asportazione della coltre detritica che copriva la stratificazione rocciosa (scoperchiatura). La coltivazione si concentrava sul “filare”, cioè lo strato di Pietra Serena principale che veniva seguito lungo la sua estensione; sul versante occidentale di Montececeri si possono ancora osservare cave adiacenti, poste a quote diverse che seguono chiaramente il medesimo strato; in particolare, molte cave a “fitta” sono ben allineate lungo un medesimo strato al “tetto” del quale è presente una sequenza, piuttosto spessa (3-5 metri), di straterelli arenacei con altri marnosi e argillitici.
Fig. 2 - Una veduta della cava di Monte Ceceri (Fiesole).
Le cave potevano essere di due diverse tipologie: a “cielo aperto” o ad “anfiteatro” (tipo Maiano), oppure “cave ficcate” o “fitte” sullo stile della latomie siracusane. Nelle prime il taglio dei blocchi (che erano abbastanza prossimi alla superficie) iniziava dall’alto verso il basso scoprendo via, via i “filari” con le loro caratteristiche (dimensioni, colore, grana etc.).Nel secondo caso si formavano delle cavità o grandi stanzoni che si sviluppavano attorno ad un pilastro centrale (piede), di sostegno alla volta, che si modellava via, via, che le operazioni di cavatura procedevano; lo scopo era quello di estrarre strati di pietra molto spessi senza interferire con la sequenza stratificata rocciosa di scarso interesse merceologico e di spessore eccessivo. La coltivazione procedeva verso l’interno formando una sorta di scala che permetteva la discesa dei blocchi cavati senza rischi di danneggiamento raggiungendo il punto più alto (cielo); da qui si procedeva abbassandosi gradualmente; al termine dei lavori di scavo, si otteneva una parete di fondo perfettamente verticale.
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Attualmente queste grandi “camere”, testimonianza della maestria raggiunta e tramandata nell’arte della lavorazione della pietra da generazioni di scalpellini fiesolani sono abbandonate e solo recentemente sono oggetto di un programma di recupero che inserisce l’area di Montececeri tra le aree locali protette (A.N.P.I.L.). Il Comune di Fiesole ha in progetto una serie di interventi per la sistemazione dell’area che sarà attrezzata per configurarsi come un museo “en plein air” della Pietra Serena. Il “masso” veniva cavato secondo tre direzioni principali: la “falda”, (direzione parallela alla superficie di strato), la “recisa” e la “mozzatura” (direzioni perpendicolari tra loro). Generalmente ai bordi del piazzale di cava, luogo sul quale si svolgevano tutte le attività di lavoro, venivano realizzati due magazzini. Talvolta questi manufatti erano addossati a pareti rocciose, di cui quello più piccolo veniva destinato per rimessaggio attrezzi di lavoro, mentre quello più grande per lavorare in occasione di maltempo; alcuni di questi fabbricati anche se molto deteriorati, sono ancora oggi visibili percorrendo i sentieri di Montececeri (vedi cava Fratelli Sarti subito ai piedi del piazzale Leonardo). Tra il luogo di estrazione ed il piazzale si realizzava con la tecnica dei muri a secco una piattaforma alla stessa altezza del piano del “barroccio” dalla quale i blocchi di roccia venivano fatti scorrere sul barroccio stesso facilitando così al massimo, le operazioni di carico per il trasporto. Nella cava le specializzazioni erano diverse: si potevano distinguere i “massaioli” che erano addetti all’estrazione del blocco, i “barrocciai”, addetti al trasporto e gli “ornatisti” pronti a soddisfare i capricci estetici degli architetti che commissionavano il lavoro. 4.2. - VERDE DI PRATO Questo materiale fa parte dell’unità ofiolitica giurassica, residuo delle rocce basaltiche che costituivano il fondo di un antico “braccio” oceanico dal quale più tardi si svilupperà la catena appenninica. Il termine litologico – formazionale corrispondente è serpentinite che affiora nel colle di Monte Ferrato, un poggio a pochi chilometri più a nord di Prato. Si tratta di un materiale lapideo richiesto per le policromie architettoniche delle città dell’intero bacino Firenze – Prato – Pistoia, che carat-
terizza i paramenti esterni delle cattedrali toscane. L’area di Monte Ferrato, oggi area protetta (A.M.P.I.L. di 4493 ha), comprende tre rilievi in sequenza di forma conica: Monte Piccioli (363 m s.l.m.), M.te Mezzano (398,6 m s.l.m.) e M. Chiesino o Ferrato (419,6 m s.l.m.). Al Monte Ferrato affiorano tre distinte rocce ofiolitiche e cioè, le serpentiniti, i basalti ed i corrispettivi termini intrusivi: i gabbri. L’intensa microfratturazione che caratterizza la serpentinite, ha reso piuttosto difficile l’ottenimento di “saldezze” significative. L’estrazione di massi di grosse dimensioni è piuttosto difficile. Le serpentiniti, possono presentare toni di verde molto diversi, dal chiaro allo scuro, con sfumature verso il rosso l’azzurro; la colorazione può risultare unita in certi casi, in altri è variegata tra verde-giallo assumendo la denominazione di “ranocchiaia”. La varietà verde molto scura è utilizzata per edilizia. In passato, sono stare coltivate le cave sul versante orientale del Monte Piccioli, presso Pian di Gello. Molte cave sono state attive per tempi brevi, attorno all’abitato di Figline, sono ancora ben riconoscibili le antiche tracce dell’escavazione. In questa ultima località si estraeva anche il gabbro (noto con il termine di granitone per la sua caratteristica grossezza dei minerali che lo costituiscono: plagioclasi e pirosseni). Questo materiale veniva impiegato per la produzione delle macine da frantoio Tipica è la bicromia realizzata con serpentinite e calcare “alberese” che decora le facciate esterne delle chiese o dei soli portali usata nell’architettura monumentale romanica-gotica e del primo Rinascimento. La prima applicazione artistica di questo materiale la si può vedere nello splendido pavimento dell’abbazia pratese di S. Fabiano; viene usata poi in opere come il Duomo e il Battistero di Firenze e il Duomo di Prato. La serpentina è una roccia che presenta facile alterabilità che provoca decoesione, definita “sbullettatura” (TARGIONI TOZZETTI, 1768). Serpentina di colore verde scuro, quasi nero, è presente nei pavimenti di Santa Maria del Fiore e fu chiamata “Paragone” da Agostino del Riccio nella sua “ Istoria delle pietre”; in questo caso, riporta Agostino del Riccio, si tratta di ser pentinite estratta presso l’Antella. Dalla cava situata alla Sacca di Prato, è stato estratto sia la varietà Paragone che il Verde di Prato impiegato nei paramenti esterni di Santa Maria del Fiore a Firenze.
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