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L’arte del Medioevo da
di Julius von Schlosser Schlosser
Storia dell’arte Einaudi
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Edizione di riferimento:
Julius von Schlosser, L’arte del medioevo, trad. it. di Carlo Sgorlon, Einaudi, Torino 1961 e 1989 Titolo originale: Die Kunst des Mittelalters
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Edizione di riferimento:
Julius von Schlosser, L’arte del medioevo, trad. it. di Carlo Sgorlon, Einaudi, Torino 1961 e 1989 Titolo originale: Die Kunst des Mittelalters
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Indice Introduzione I.
Presupposti filosofici e culturali
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Fonti della storia medievale
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Contributi dei singoli popoli
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Origini e formazione del linguaggio artistico medievale
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Carattere e sviluppo del linguaggio artistico medievale
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II. III. IV. V.
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Introduzione
Queste pagine non pretendono di offrire un vero e proprio compendio della storia dell’arte medievale, nemmeno un compendio a volo d’uccello. Piuttosto esse sono state pensate come una introduzione al linguaggio artistico del Medioevo, un linguaggio che, per necessità storica, ci è divenuto estraneo e lontano. Se l’arte, secondo un detto di Hermann Hettner, è linguaggio, nient’altro che linguaggio (e che altro dovrebbe essere?) e uno spirito fine come Alexander Conze occasionalmente la chiamò un «parlare in forma visibile», noi dobbiamo rigorosamente aderire alla sistemazione che Benedetto Croce ha sviluppato nella prima parte della sua «filosofia dello spirito», alla concezione dell’estetica come scienza generale del linguaggio, alla teoria dell’espressione artistica come forma prima e aurorale dello spirito teoretico, completamente autonoma rispetto all’attività logica, come rispetto a quella pratica ed etico-economica. Ogni arte, come ogni linguaggio, è però qualcosa di individualmentee determinato e di irripetibile e la distinindividualment zione dell’espressione originale dall’opera dell’imitatore o del non-artista, costituisce lo spinoso problema di ogni storia dell’arte (come pure della storia della letteratura). La storia dell’arte è, nella sua essenza, «storia degli artisti», e non già nel senso sorpassato di storia biografico-aneddotica, alla maniera degli antichi, e ancor
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meno nel senso di «storia della cultura», proprio dei tempi moderni. L’arte, come la lingua, si può considerare, per determinati scopi scientifico-pratici, da un punto di vista diverso da quello della creatività: per esempio, come è stato detto con un’espressione che è facile interpretare male, dal punto di vista dello «sviluppo». Astraendo cioè da quello che v’è in essa, propriamente, di determinato, di creazione individuale, si può considerare l’arte come somma di tutto ciò che resta, e che in determinati periodi sembra essere comune a tutte le opere di espressione, a quelle buone o mediocri come a quelle cattive, a quelle originali come a quelle di imitazione. È il cosiddetto «stile del tempo»: non dobbiamo però dimenticare che si tratta di un’astrazione, anche se non di un’astrazione scientifica, del tipo di quelle in uso nelle scienze naturali. Per capire il linguaggio di un’opera d’arte, di qualsiasi arte, bisogna averlo imparato, e questo si fa attraverso la grammatica, con o senza trama storica, la quale non si volge all’individuale concreto ma al generale astratto, ricavato con procedimento convenzionale da quell’individuale concreto. A questa maniera di considerare l’arte, il Medioevo sembra prestarsi in maniera del tutto particolare, giacché, in conformità all’atteggiamento spirituale che gli fu proprio, in esso l’individuale occupa un posto molto secondario, è messo al bando, e per lunghi tratti almeno il Medioevo ci appare anonimo e abiografico. Già il suo nome suggerisce l’impressione di un’età intermedia, di passaggio, senza autonomia, inserita tra l’antichità e l’era nuova della «rinascita», un’età che comincia con la decadenza e lo sfacelo della prima e passa, attraverso decadenza e sfacelo, a preparare tempi nuovi e migliori. Alla fine di essa, si intravedono gli inizi del nostro linguaggio moderno, di quelle forme di cultura e di espressione, nelle quali noi stessi pensiamo, o
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meglio nelle quali siamo ancora abituati a pensare, benché segni del loro decomporsi si facciano sempre piú evidenti, anzi fossero in atto già prima della guerra mondiale, che di questo processo fu essa stessa un sintomo. Come noi non siamo in grado di capire un testo in antico o medio tedesco, o un testo in antico francese o inglese, senza una speciale preparazione e introduzione grammaticale, benché si tratti del nostro passato nazionale, cosí non possiamo capire (o dobbiamo già dire: non lo potevamo fino a poco tempo fa?) il linguaggio artistico del Medioevo, la sua particolare essenza artistica, senza una tale propedeutica. A questa propedeutica appartiene anche l’esame dei rapporti delle epoche successive con il Medioevo e la sua arte: cioè la storia della critica del Medioevo, come essa si è sviluppata fino ai nostri giorni, ed è salita di grado in grado a una comprensione sempre piú profonda. L’epoca immediatamente successiva al Medioevo tiene nei riguardi di esso, specie in Italia, un atteggiamento che del resto non è infrequente nella vita: il rifiuto totale dell’antico ideale. La Rinascenza, incantata dall’immagine di una lontana, avita gloria nazionale, ha dimenticato la sua origine; da essa viene quel nome spregiativo di «gotico», che noi ancor oggi usiamo per il momento piú alto ed evoluto dell’arte medievale. Per gli Italiani, i primogeniti (secondo l’espressione di Jacob Burckhardt) della moderna e oggi apparentemente superata civiltà, l’epoca anteriore al 1300, alla loro «rinascenza», rappresentava il compendio di tutto ciò che si opponeva alla loro teoria dell’arte (ed essi erano i primi in Europa che ne avessero elaborata una su basi teoretiche e storiche), la somma di ogni cattivo gusto, una barbarie quale solo un popolo straniero, rozzo conquistatore, poteva portare in un paese di antica civiltà. La caricatura che il Vasari ha abbozzato del Medioe-
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vo nella sua grande opera storica, presto divenuta esemplare per tutta l’Europa, è disegnata con gli occhi dell’odio che sovente vedono piú acutamente di quelli dell’amore: quello che egli ha messo in rilievo, le forme malsicure, vacillanti, le figure che si muovono sulle punte dei piedi, prive di una modellazione razionale, fantocci piú che figure umane, dai movimenti bruschi e disarticolati, dagli occhi spiritati come quelli dei pazzi: tutto ciò è visto bene dal punto di vista dell’antichità classica, o da quello del Rinascimento, ma solo da quel punto di vista. Tale incomprensione durò per molto tempo, e doveva durare finché questa mentalità non fosse completamente esaurita. Lo sviluppo spirituale del Goethe offre, a questo proposito, un grande esempio del passaggio dialettico, in una singola vita, dalla esaltazione del sentimento propria del preromanticismo del secolo xviii, attraverso il classicismo dello scorcio del secolo, al positivismo del secolo xix. L’erudito secolo xviii e l’illuminismo compirono un reale progresso nel correggere l’errore storico, ma la rettifica rimase limitata entro una ristretta cerchia di dotti, come accadde anche dei risultati dell’indagine antiquaria, che tentò, specialmente in Francia, la patria del gotico, di investigare il passato nazionale. Isolato e incompreso, come era rimasto in vita Giambattista Vico, cosí rimase anche il suo principio di riconoscere al Medioevo una sua barbarica grandezza, e di paragonarlo alle antiche età omeriche. L’incomprensione per l’arte medievale continuò: dominò ancora per lungo tempo il canone del classicismo, affermato dagli Italiani, sviluppato dai Francesi, e portato al suo ultimo compimento dai Tedeschi. Ma il preromanticismo del secolo xviii ritrovò la strada che conduceva al Medioevo, sia pure dall’esterno e per via indiretta; si trattava però di una strada viva, non di morta erudizione: l’esaltazione dell’antichità nazionale. Il neogotico del seco-
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lo xviii, apparso dapprima in Inghilterra, ne è una manifestazione appariscente. Un intimo avvicinamento fu determinato anche dal poderoso processo di assimilazione tra nord e sud operato dal linguaggio, comune a tutta l’Europa, del barocco: su questo avvicinamento negli ultimi tempi si è fin troppo spesso insistito (e magari con scarsa cautela) perché sia qui il caso di entrare a fondo nell’argomento. Pure ha un profondo significato il fatto che anche questo periodo, il barocco, entri nella storia con un nome spregiativo, proprio come il gotico, e che solo da poco tempo il bando che pesava su di esso abbia cominciato a scomparire. L’analoga (e spesso poco chiara) posizione sentimentale del romanticismo tedesco non offre in fondo nessun tratto nuovo. Quanto poco esso abbia penetrato l’essenza dell’arte medievale, nonostante i suoi trasporti d’entusiasmo, lo mostra la sua puerile mania di restaurazione e di purismo. L’elemento insostituibile di quell’arte (e non solo dal tempo del deprecato barocco) fu sacrificato. Ancora alla fine del romanticismo le brillanti policromie della scultura gotica furono – per cosiddette ragioni di gusto – rovinate con grigie verniciature ad olio, che dovevano restaurare la monocromia «classica»! Il secolo xix, storico e positivo, spregiudicato spesso fino alla insensibilità, ha posto (e per questo noi gli dobbiamo eterna gratitudine) le fondamenta per la comprensione vera e propria dell’arte medievale; ma in verità solo le fondamenta. È impossibile ripercorrere qui in modo particolareggiato l’opera compiuta specialmente dagli archeologi e antiquari francesi (le due denominazioni sono usuali ancor oggi in Francia, e indicative), da Caumont e Didron fino a Courajod e a Emile Mâle; e dagli storici dell’arte tedeschi, da O. F. von Rumohr (questi soprattutto per il Medioevo italiano), dai Kugler, gli Schnaase, i Lübke, e poi lo Springer, il Kraus e molti
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altri piú recenti. Si trattò del ritrovamento, del vaglio e della provvisoria sistemazione di un materiale immenso (culminato in Germania nel lavoro collegiale della Deut scher Verein für Kunstwissenschaft ), della decifrazione del contenuto spesso oscuro, o interpretato in maniera molteplice, arbitraria e romantica, delle opere d’arte medievali, della piú precisa individuazione formale per mezzo della divisione in scuole e in officine. Queste indagini e molte altre certamente favorirono una maggior approssimazione all’intima essenza di quest’arte divenuta a noi estranea: ma nella sostanza tutto ciò rimase ancora erudizione, filologia, lavoro preparatorio, sia pure indispensabile. Soltanto a datare dall’ultimo decennio del secolo xix uno spirito nuovo comincia a farsi strada nella considerazione delle opere d’arte: esso si impersona nei due principali rappresentanti della cosiddetta Scuola viennese, Franz Wickhoff e Alois Riegl. Ma come già nella loro stessa espressione letteraria i due uomini si rivelano spiriti antitetici, tradendo la loro diversa origine e il loro diverso orientamento spirituale, cosí anche nel loro rapporto con l’opera d’arte essi mostrano atteggiamenti assai distanti. Il Wickhoff, che era stato lungamente incerto se dedicarsi alle scienze naturali, restò sempre legato alla tradizione positivistica ed empirica della metà del secolo, contraria ad ogni speculazione filosofica, ma mantenne sempre un commercio diretto con le opere d’arte, sia l’arte del passato che quella del suo tempo, l’impressionismo, connesso esso pure con le estreme conseguenze della filosofia naturalistica. Appunto in virtú di questo rapporto immediato con l’arte a lui contemporanea, egli poté comprendere con tanta penetrazione l’«illusionismo» dell’arte romana: è quello che è avvenuto nel suo libro maggiore, il quale, prendendo le mosse da un manoscritto miniato della tarda antichità, la Genesi di Vienna1, tratta appunto dell’arte romana, lungamente dimen-
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ticata cosí dagli archeologi, come dai nuovi storici dell’arte. Un libro che resterà il suo capolavoro, anche se della sua costruzione critico-storica non si è salvato un solo frammento, in quanto ci apre l’accesso alla conoscenza reale del linguaggio artistico medievale, che ha le sue radici profonde, come tutte le lingue romanze, nel latino volgare della tarda antichità. Di tutt’altra indole e posizione era il Riegl. Aveva esordito come storico puro e il suo rapporto con l’arte, particolarmente vivo nei lunghi anni di attività presso il Museo austriaco di Arti decorative, fu fin dal principio intellettualmente definito e consapevole, non intuitivo come quello del Wickhoff. Il Riegl, specialmente nei suoi anni piú tardi, diventato sordo e sempre piú isolato, si perdette nella boscaglia speculativa di una sua originale costruzione: e ciò rende particolarmente difficile il suo lavoro principale, Die spätrömische Kunstindustrie [L’arte artigiana tardoromana]2. Tuttavia, o forse appunto per questo, l’influsso del Riegl, che si è diffuso lentamente, è stato piú forte di quello esercitato dal Wickhoff: astrarre e ridurre in formule riesce in generale, alle nature intellettualmente dotate, piú facile che rivivere l’opera d’arte. «Questo è peccato antico: pensare che ragionare sia scoprire», dice un vecchio adagio. (Su questa linea i lavori di studiosi piú giovani, specie quelli del Worringer, uomo senza dubbio ricco d’ingegno, rischiano di diventare una caricatura di quelli del Riegl). Il Riegl fu una profonda ed autentica natura di indagatore, e specialmente nell’opera citata ha gettato le basi di ciò che si può chiamare la «grammatica storica dell’arte medievale». Questo però è avvenuto per un’epoca e un settore d’arte nel quale tali generalizzazioni sono piú facilmente possibili. Ricordiamo che è stata proprio la parte piú debole del pensiero del maggior filosofo del romanticismo, lo Hegel, e cioè la filosofia della storia – e non il suo pensiero storico, uni-
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versalmente valido – che ha esercitato l’influenza piú notevole. Se con la sistemazione riegliana veniva dunque aperta la strada all’arte medievale, l’accesso alla sua essenza piú intima poteva essere conquistato soltanto attraverso il cammino che il Wickhoff aveva percorso dall’antichità fino a noi: l’arte medievale doveva diventare un evento interiore, non esteriore, del nostro sviluppo spirituale. Ciò avvenne circa sullo scorcio del secolo scorso, quando naturalismo e positivismo ebbero esaurito la loro funzione storica, riducendosi ormai a fenomeni di sopravvivenza, e si verificò nell’arte un deciso cambiamento, il quale, dopo rozzi tentativi di ogni genere, prese consistenza e fu denominato «espressionismo»: nome di battaglia mal scelto, ma che accentuava consapevolmente l’opposizione al passato. Per radicale negazione dell’individualismo, spinto all’estremo nel secolo xix, del quale pure era il successore – nel senso proprio ad ogni ben inteso progresso storico – e dal quale aveva ereditato l’eclettismo storico, l’espressionismo si appropriò di tutto ciò che fosse primitivo, barbarico, esotico, dovunque e comunque servisse ai suoi scopi. Lo si giudichi come si vuole, si trovi pure ripugnante la sua tendenza al livellamento dell’individuo nella massa; esso rimane tuttavia un fenomeno storico, carne e sangue delle nuove generazioni, davanti ai cui occhi sprofonda un mondo antico, illuminato sinistramente dalle fiamme della guerra mondiale, dopo che le campane tempestose della Rivoluzione e del Romanticismo già da tempo ne avevano dato l’annuncio. Rifiutiamo pure ogni dilettantesca «filosofia della storia» a colori apocalittici, come per esempio quella dello Spengler: tuttavia un confronto del nostro tempo con quello dell’antichità avviata allo sfacelo, e mentre un nuovo mondo, misticamente e religiosamente fantastico va sorgendo, si affaccia con prepotenza alla nostra mente.
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Un’acuta interprete del romanticismo, Ricarda Huch, ha scritto un libro sulla «spersonalizzazione»3 che è, allo stesso tempo, una visione retrospettiva e una previsione. Ancor prima della guerra mondiale, era apparso lo scritto di un russo, il Kandinsky, sullo «spirituale nell’arte»4: un acuto documento del tempo, più chiaro del confuso balbettio con pretese artistiche delle sue pitture. Qualche tenue e debole preludio di questo spirito già risuona in uno scritterello anteriore del tedesco Klinger, sulla pittura e sul disegno5. Sarebbe un cadere nella cieca superstizione del positivismo, voler negare che ogni rovesciamento di questo genere non maturi prima nel profondo dello spirito, nella concezione del mondo. Non è un caso che all’inizio del secolo xx cominci a prender forma l’opera principale di un uomo, che le future generazioni designeranno senza dubbio come il filosofo del secolo, cioè la Filosofia dello spirito di Benedetto Croce. Voler vedere, come è stato tentato, un nesso tra essa e l’effimero episodio del futurismo italiano, è naturalmente una sciocchezza, che contiene però il solito granello di verità: che cioè l’arte contemporanea tende nebulosamente in quella stessa direzione, che nella filosofia del Croce è indicata con meraviglioso acume e chiarezza. Qualcosa di analogo si ritrova nella fluida filosofia del Bergson, una speculazione piú povera, che, di piú, porta fatalmente con sé un sapore di filosofia alla moda: il suo paragone tra l’immagine del mondo e lo svolgersi di una pellicola, cioè la forma d’arte piú recente e ancora non ben definita, è piú che un semplice gioco di parole. È un fatto assai significativo che il piú grande storico dell’arte dei nostri tempi, Heinrich Wölfflin, che si è formato alla scuola di Jacob Burckhardt (il quale ha pure studiato il tempo di Costantino in un’opera giovanile)6 e nello studio appassionato della Rinascenza, abbia trattato di recente, da questa nuova
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posizione, uno dei piú grandi monumenti del primo Medioevo, il manoscritto miniato dell’ Apocalisse di Bamberga7. Per quanto si possa criticare nei particolari questo lavoro (senza dubbio esso è un po’ contorto e pecca di eccessivo schematismo), pure rimane la prima trattazione di storia dell’arte che penetri effettivamente l’essenza dell’arte medievale; e si tratta di un’opera d’arte, si badi, di fronte alla quale tutti coloro che prima del Wöfflin ne avevano parlato, nonostante – o forse a causa – della loro dottrina, si erano mostrati ottusi o imbarazzati. Dietro questo lavoro sta la grande esperienza (esperienza della filosofia e dell’arte insieme) dell’epoca in cui viviamo. Anche la Rinascenza, nonostante tutte le sue pedanterie, non è stata una pura e semplice riesumazione di cadaveri, ma una vera «rinascita»: e in essa la parola assume un senso di esperienza mistica, in cui si rivela ancora la discendenza dal Medioevo, nonostante tutti gli sforzi per rinnegarla. Oggi, soprattutto i piú giovani tra noi, benché siano gli ultimi credi della Rinascenza, vedono l’arte medievale con occhi del tutto diversi da come la potevano guardare quelli della generazione passata. Anche la musica medievale noi l’ascoltiamo in modo diverso, e le famigerate serie di quarte e di quinte dell’organum del primo Medioevo, grazie alla nostra moderna esperienza musicale, risuonano alle nostre orecchie in maniera assai diversa da come risuonavano nel nostro recente passato; giacché allora si credeva di poter spiegare quelle «mostruosità musicali» con una interpretazione assai contorta e per noi ora assai significativa: si giustificavano infatti come «forme di ascesi musicale», come una specie di penitenza dell’orecchio.
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franz wickhoff,
Die Wiener Genesis, Wien 1895; trad. it. Pado-
va 1947 [N. d. R.]. 2 Pubblicato a Vienna nel 1901. La piú recente traduzione italiana è apparsa nelle edizioni Einaudi con il titolo Arte tardoromana, Torino 1959 [N. d. R.] 3 ricarda huch, Entpersönlichung , Leipzig 1921 [N. d. R.]. 4 wassili kandinsky, Über das Geistige in der Kunst , München 1912 [N. d. R.]. 5 max klinger, Malerei und Zeichnung , München 1891 [N. d. R.]. 6 jacob burckhardt, Die Zeit Constantins des Grossen , Basel 1853; trad. it. Firenze 1957 [N. d. R.]. 7 heinrich wölfflin, Die Bamberger Apokalypse, München 1918 [N. d. R].
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Capitolo primo
Presupposti filosofici e culturali
Nella prima valutazione critica del Medioevo, quella elaborata dall’umanesimo proprio a proposito delle arti figurative, il Medioevo, confrontato con l’antichità, risultava come un tempo di assoluta decadenza. A Giambattista Vico invece, che per primo, grazie al suo profondo spirito speculativo, lo ha inteso nella sua essenza, il Medioevo appare come un ritorno, un «ricorso» della barbarie eroica delle età omeriche. V’è tuttavia in lui ancora qualcosa dell’antichissimo pensiero orientale (che ritorna ogni tanto di moda, come accade ai nostri giorni, magari con un poco di fatuità): ed è il motivo dell’«eterno circolo», pieno di desolata passività, che è sostanzialmente eterno stato di quiete; motivo che ancora ritorna – sia pure in forma attenuata – nella famosa espressione goethiana, dello «sviluppo come una linea spirale ascendente, in cui il passato ritorna, ma sempre un grado piú in alto». Per la prima volta la concezione del mondo e della storia del piú grande filosofo del romanticismo, lo Hegel, ha riconosciuto il vero significato di ogni progresso storico, il quale consiste nel fatto che il periodo successivo supera il precedente in quanto assimila in sé quello che di esso era proprio, lo assimila e lo annulla nello stesso tempo. Come la vita ha in seno la morte, cosí la morte la vita, e questa sintesi degli opposti, la dialettica del divenire, intuita vagamente dalla filosofia del
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Rinascimento, ci deve far apparire il Medioevo, secondo la logica storica, come un necessario (in quanto realmente avvenuto) progresso rispetto all’antichità, perché costituisce, rispetto a questa, qualcosa di nuovo apparso sulla scena del mondo. Nel Medioevo il mondo sembra diventare più grande, sovrastato da un cielo profondo. Ogni pensiero conduce ad esso, è rivolto in alto, non alla piccola terra. In luogo della soggettività atomistica dell’antichità, la quale, per usare un’espressione hegeliana, «porta bensí in sé la coscienza dello spirito, ma di uno spirito limitato, il quale aveva in sé l’elemento naturale come ingrediente indispensabile», subentra ora una illimitata signoria dello spirito, una nuova trascendenza affermata fino alle sue estreme conseguenze. Il platonismo non si era rinnovato invano alla fine dell’antichità; il neoplatonismo concludeva la filosofia pagana e iniziava quella cristiana. Ogni fatto terreno, ogni oggetto individuato, è quivi, secondo i casi, apparenza, favola, menzogna: ogni senso della vita e degli accadimenti è posto al di là del mondo dell’apparenza sensibile. Se la tarda grecità aveva annullato in modo analogo l’individuo, ciò era avvenuto entro l’ethos della città-stato: un’altra prova che le analogie che corrono in piú di un punto tra lo sviluppo dell’arte antica e quello della nuova non sono da considerarsi senz’altro come un ritorno dell’«uguale», ma possono invece avere avuto origini molto diverse. Nel Medioevo non esiste una polis, o un popolo eletto, si tratti di quello dell’antico patto, l’ebreo, o di quello greco, eletto fra i barbari. Esiste solo l’umanità intera: lo dice il nome stesso della chiesa «cattolica». Non esiste un ethos cittadino; esiste solo l’uomo, essere spirituale. Un profondo dualismo divide gli uomini in affermatori e negatori dello Spirito, in credenti e miscredenti. La storia si allarga rispetto a quella dell’antichità, chiusa entro il cerchio del-
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l’ethos nazionale, fino a diventare vera e propria storia del mondo, con orizzonti infiniti e l’infinita prospettiva dell’al di là. Già all’inizio del Medioevo noi troviamo il concetto di «historia spiritualis», la concezione cioè che rinnega l’antica legge della natura, alla quale anche il sommo tra gli dèi era sottoposto, e afferma che la storia segue una sua legge propria, puramente spirituale, il volere dell’Unico, onnipotente e onniveggente, della Divina Provvidenza: un concetto profondamente diverso dalla cieca anánke degli antichi. Gesta Dei per Francos è il dichiarato programma di una cronaca merovingia: i fatti individuali sono solo lo strumento e la forma di un’alta potenza spirituale che in essi opera. Paolo Orosio, paragonato a un Polibio, è senza dubbio un autore barbarico: ma la sua storia universale, diretta espressamente contro i pagani ( Adversus paganos) è veramente tale, cioè universale, e sta un gradino piú su, nel senso del progresso storico, rispetto a quella di Polibio, come del resto il Medioevo e la sua arte rispetto all’antichità. La nuova concezione della vita e del mondo si incarna in una potente personalità che chiude la filosofia antica ed apre l’èra nuova: sant’Agostino. La sua Civitas Dei sta come meta ultima alla fine dei tempi. Non si tratta della palingenesi senza speranza del pensiero orientale, né della concezione pessimistica dell’antichità, col suo presupposto di un’età dell’oro di fronte alla quale ogni avvenimento posteriore è solo un decadimento sempre piú profondo; ma di una visione fondata su un ottimismo pieno di lieta speranza, di un progredire rettilineo all’infinito, con un epilogo che annienta alla fine ogni male (ma anche ogni accadimento), con l’acquisto finale di un paradiso celeste, in luogo di quello perduto sulla terra (pensiero fondamentale di ogni visione apocalittica e di ogni utopia, giú giú fino al
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socialismo). Ciò conferisce a questo nuovo mondo che emerge un senso di freschezza primaverile, qualcosa di giovanile rispetto al decrepito intellettualismo dell’antichità. Un forte calore di sentimento, che si manifesta in una esaltazione dell’elemento passionale, e un potere senza limiti dell’attività fantastica, sono aspetti caratteristici del Medioevo: ambedue scaturiscono dalla speranza e dalla fede nell’al di là. Dato che tutto ciò che è terreno e individuale è stimato apparenza fugace, e l’essenza e la pienezza del mondo son poste in qualcosa che trascende ciò che è terreno, il vicino e il lontano, il reale e l’irreale perdono i loro contorni definiti e si confondono insieme. Il «fatto», che solo apparentemente è reale, diventa fatalmente indifferente: donde la storia «inventata», i falsi documenti ad maiorem Dei gloriam, la fede nel miracolo, la straordinaria mancanza di critica e l’illimitata credulità del Medioevo. Tutto ciò ha le sue radici profonde nella visione medievale del mondo: per questo il Medioevo sembrò incomprensibile e grottesco all’epoca seguente, che era in posizione antitetica rispetto ad esso. La nuova critica rinascimentale dei testi è cominciata non sui documenti dell’antichità, ma su quelli dell’aborrita «età di mezzo». È noto come la sfrenata fantasia del Medioevo sia stata reviviscenza dell’eredità antica e orientale: la storia naturale, la geografia, le cronache universali, l’astronomia, diventano una specie di meraviglioso giardino di fiaba cresciuto sulle rovine dell’antichità involte in una selva di elementi fantastici: proprio come le opere architettoniche e pittoriche delle due grandi capitali, Roma e Bisanzio, vengono circonfuse da una spessa vegetazione di favole e leggende. L’opposizione di vero e falso riguarda soltanto il mondo «reale» in senso medievale, cioè il mondo trascendente, quello degli universali, non il mondo sensibile, percepito con gli occhi e con l’udito. Si tratta del
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«realismo», come si diceva nel linguaggio filosofico delle scuole dell’epoca: il contrario per l’appunto di quello che noi, posteri della Rinascenza, siamo soliti designare con questa parola. Tutti i limiti di spazio e di tempo sono senza significato; cosí lo stesso mondo dei fenomeni, come noi lo concepiamo, si muta in una favola fantastica: si capisce che il Medioevo sia poi apparso come un colossale travisamento o addirittura, come fu giudicato dalla generazione che lo seguì, una incomprensibile parodia. Ora, tutte queste cose non si possono capire senza conoscere i precedenti storici che le hanno determinate, tanto esse sono lontane anche dallo spirito dell’antichità. Sotto il crescente influsso dell’Oriente, alla fine dell’antichità, si verificò una profonda spiritualizzazione del mondo, e il cristianesimo diventò la concezione e la religione dominante perché esso corrispose perfettamente a questo sviluppo. Il misticismo, l’ascetismo e l’elemento sentimentale ricevettero una forte accentuazione nell’ultima fase del pensiero antico. Ma il Medioevo non fu soltanto mistico e ascetico, fantastico e sentimentale; esso ereditò gran parte dell’intellettualismo del pensiero antico. Dal popolo ebraico esso aveva ricevuto un testo sacro rivelato immediatamente da Dio (fenomeno completamente sconosciuto all’antichità): questo testo costituiva un punto fermo che avrebbe condotto al rigido dogmatismo e all’autoritarismo medievali, e nello stesso tempo alla separazione (altrettanto sconosciuta nell’antichità) tra sacro e profano, per cui tutto quanto è fuori del tempio è insufficiente a se stesso e deve perciò essere guidato da una ragione piú alta. Con la negazione dell’individuale vennero a prevalere risolutamente il tipico, il formalistico e il tradizionale, in misura quasi altrettanto forte che il misticismo e l’irrazionalismo, rendendo cosí ancor piú profonda l’interna scissione di questo pensiero già cosí intimamente
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dualistico. Di questo dualismo si ebbe coscienza, e il gotico tentò di superare l’abisso tra spirito e mondo mediante la spiegazione simbolica del mondo sensibile. Anche in questo la filosofia cristiana mostra di accogliere un’eredità antica: già nello Stoà, con cui essa è in senso generale strettamente legata, il mondo variopinto e solidamente reale di Omero aveva subito un processo di spiritualizzazione simile a quello operato dal Medioevo. Ma ciò che là era stato solo un episodio diventa ora un fenomeno di portata universale. C’era avanti a tutto il testo base della nuova umanità, la Sacra Scrittura (nella quale tuttavia nulla manca quanto a pienezza di umanità, cosí come nei poemi omerici). Scoprirne i significati nascosti sotto quello letterale era d’esclusiva competenza della scienza ecclesiastica, l’unica capace di ciò, perché basata sull’autorità divina. Questa scienza veniva a sottrarre deliberatamente il libro dei libri alla vaga e incostante fantasia e al sentimentalismo dei laici non colti. Su queste fondamenta posa l’imponente costruzione «gotica» della filosofia scolastica, la cui struttura è formata da frammenti di opere antiche. Si tratta di una straordinaria enciclopedia del mondo la quale, nonostante l’antico nome, rappresenta qualcosa di nuovo, un reale progresso storico, e, illuminata dalla luce della rivelazione, è uno specchio di tutta la realtà, e solleva e risolve la realtà terrestre nella trascendenza. La filosofia dell’antichità è cosí diventata teologia, e la fede nella forza dello spirito è tanto forte che ci si arrischia a provare la reale esistenza di Dio con l’argomento ontologico, cioè basandosi sulla semplice esistenza del concetto di essa. Ogni storia è, sostanzialmente, storia dello spirito nella sua unica forma possibile, cioè storia della Chiesa, di fronte alla quale ogni storia politica si annulla, appunto perché la Chiesa raccoglie in sé e spiritualizza col suo solo contatto tutto, anche le minime
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cose. Analogamente ogni cosa terrena è qualcosa di diverso da quello che appare, o, come dice uno scrittore di sentenze del tempo di Federico II, il Freidank: «La terra non porta radice né genere | al quale un senso piú profondo non sia proprio. | E nessuna creatura è libera da ciò, | dal mostrare altro da quel che essa è». Nella realtà storica, almeno in Occidente, a questi fenomeni spirituali corrispose l’inarrestabile ascesa del potere spirituale che finí per trionfare su quello temporale allorché (e fu momento memorabile) Enrico IV stette come un penitente a Canossa nella corte del castello della marchesa di Toscana. Ma a questa ascesa doveva seguire il declino, come nell’allegoria della Ruota della Fortuna tanto amata nel Medioevo. La tensione polare tra spirito e mondo era troppo forte, e l’aspirazione a superare il dualismo era troppo potente perché lo spirito medievale potesse continuare a lungo. Non era la passività che aspira alla quiete e disprezza l’attività, propria del pensiero orientale: la volontà di vita di questa rinnovata eroica barbarie era troppo forte; il Medioevo doveva alla fine camminare nella direzione di ogni progresso storico, dissolvere se stesso per dar luogo, con la propria fine, a una nuova epoca. Ogni dissolvimento viene dall’interno, ogni morte esteriore è soltanto un simbolo: e questo vale anche per il Medioevo. È vero che molte cause di decomposizione gli vennero dall’esterno: ma è altresí vero che esse divennero efficaci solo quando trovarono nello stesso mondo medievale il terreno propizio. Cosí la Rinascenza italiana non ha preso vita, come si è supposto con ingenuo prammatismo, solo per merito di un paio di dotti greci fuggiti di fronte all’avanzata turca. Tutta la fascia orientale e meridionale, e per lungo tempo anche quella occidentale, del bacino mediterraneo, nel quale si era svolta la civiltà antica, era caduta sotto il dominio di una potenza, l’Islam arabo-persiano,
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nella quale si univano il vecchio e il nuovo in modo simile e pure diverso che nell’Occidente, il cui centro di gravità si era frattanto spostato verso il Nord-ovest. Era una potenza di alta civiltà, vicina (o forse superiore) spiritualmente, per la sua posizione religiosa e la sua «barbarie», all’Occidente cristiano con cui lottò per secoli, ma al quale diede anche, per larghi tratti, elementi di cultura, secondo quello che era sempre stata la funzione dell’Oriente. Certo l’Occidente ha conservata pressoché intatta la sua fisionomia – accogliendo continuamente col suo attivo individualismo gli influssi esterni, ma trasformandoli energicamente ed adattandoli a sé – fino ad oggi, in cui la tensione tra civiltà orientale e civiltà occidentale è di nuovo salita al massimo grado. Non è qui il luogo di dilungarci a mostrare come le leggende orientali abbiano fertilizzato la vivace fantasia del Medioevo; diremo soltanto che l’intellettualismo della scienza greca e la concezione greca del mondo sono passati all’Occidente attraverso la scienza araba, e hanno liberato e dato impulso a forze spirituali che hanno lavorato sotto la superficie. In sostanza, da esse è venuto un nuovo avvio verso la scienza empirica, è venuta la rivalutazione del fatto particolare e della natura rispetto allo spirito: e sono fenomeni che, a lungo andare, condurranno a una nuova visione del mondo, per quanto anch’essa, al pari della precedente, unilaterale. Nella storia del pensiero medievale questo fatto segna l’inizio della dissoluzione di quella concezione che aveva raggiunto il suo piú alto grado col «realismo»: la dissoluzione fu operata dal «nominalismo», movimento di pensiero favorito, se non prodotto, dal pensiero e dalla scienza araba, di fronte al quale il realismo dovette cedere, sia pure dopo molti tentativi di compromesso. Si ha dunque una crescente rivalutazione del dato sensibile, sperimentale, individuale, rispetto al quale i
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concetti generali, gli «universali», appaiono niente altro che nomi, etichette create dall’economia del pensiero, che ordina il mondo sulla base dell’esperienza sensibile. Vengono cosí poste le basi di quel positivismo rinascimentale, al quale tanto hanno contribuito gli artisti italiani, pionieri della nuova scienza nella sua gloriosa ascesa. Ultimo tra essi è il veggente Leonardo, con la sua lotta ingenuamente appassionata contro la Scolastica, lotta che culmina col grido di guerra del Campanella: «Scientia est de singularibus, non de universalibus». Questo indirizzo filosofico ha la sua ultima manifestazione nel positivismo del secolo xix, ma è soprattutto evidente nel neonominalismo della filosofia inglese del secolo xviii. Da esso è uscita la concezione kantiana, che lo ha definitivamente superato: un avvenimento, la cui importanza è assai maggiore di quella della Rivoluzione francese, e i cui effetti sono durati fino alla guerra mondiale: giacché ogni avvenimento pratico ha la sua condizione e il suo presupposto nel pensiero teoretico. Questa dura battaglia tra immanentismo e trascendenza, in un dualismo insoluto e finora insolubile, riempie di sé il tardo Medioevo e getta le basi del periodo successivo. I segni della dissoluzione aumentano: il miracolo perde visibilmente terreno, Dio agisce piú attraverso le cause «seconde», che non intervenendo direttamente nel corso degli avvenimenti, i fenomeni naturali perdono il loro carattere leggendario e fantastico, fede e scienza vengono, in modi piú o meno artificiosi, divise. La secolarizzazione del mondo s’impone irresistibilmente, l’abisso tra vita spirituale e vita mondana, tra laico e sacerdotale, diminuisce rapidamente, soprattutto in Italia. L’indagine storica si rivolge sempre piú, dall’idea universale sub specie aeterni, al particolare: le cronache cittadine e regionali, come pure le biografie di individualità poderose (ad esempio, quella di Federico II), guadagnano sempre piú terreno; la storia universa-
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le di tipo medievale, collocata contro un fondo d’oro senza tempo né spazio, cede il posto alla storia municipale con caratteri spiccatamente realistici, che si rivolge al particolare – e ciò avviene ancora una volta nell’Italia dei comuni prima che altrove – alle memorie, alle cronache di famiglia, alle biografie-ritratto, in senso nuovo e personale. Abbiamo deliberatamente trascurato di parlare della situazione economico-politica del Medioevo, come pure in seguito si accennerà appena alla tecnica artistica (cui il materialismo del secolo xix assegnava tanta importanza), giacché qui si tratta dello spirito immanente nella sua originaria attività, e non già dei suoi effetti secondari.
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Capitolo secondo
Fonti della storia medievale
In ogni periodo le fonti immediate, cioè i monumenti stessi, sono naturalmente piú importanti delle fonti secondarie, ossia le testimonianze scritte su di essi. Questo vale in modo particolare per il Medioevo, proprio per la sua particolare concezione della storia, che non è la nostra: nel «realismo» medievale il dato storico-individuale ha altrettanto poco valore del dato sensibile; vero e falso hanno un senso del tutto diverso da quello che avranno nell’epoca successiva, successiva , che cominciò proprio con la critica del Medioevo; il loro rapporto anzi sembra quasi invertito. Tra le fonti dirette stanno in primo piano le opere architettoniche, soprattutto, specialmente per il primo Medioevo, quelle ecclesiastiche, le quali, conformemente al carattere dell’epoca che abbiamo illustrato, si impongono quasi sole alla nostra considerazione, e per larghi tratti rappresentano la vera e propria storia dell’architettura del Medioevo. Di piú, esse contengono in sé, soprattutto quando si tratta di quei grandiosi complessi che sono le antiche basiliche e le cattedrali romaniche e gotiche, buona parte delle opere delle arti sorelle (pittura, scultura ecc.), le quali solo lentamente e quasi contro volere si distaccano dall’architettura. Le tracce di questo legame resteranno visibili ancora per molto tempo, ed episodi figurativi molto posteriori al nostro periodo (come i grandi polittici del tardogotico)
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mostrano un’unità quasi inscindibile delle varie arti, che solo per ragioni pratico-didattiche possono essere distinte. Una forma d’architettura altamente significativa per il Medioevo è rappresentata dalla piú antica casa di abitazione a carattere religioso: i monasteri. Chiaramente definiti nella loro struttura appaiono quelli occidentali, assai piú inorganici e incerti quelli orientali. Pur essendosi differenziati dalle costruzioni sacre dell’epoca paleocristiana, i monasteri conservarono invariato fino alla fine del secondo grande periodo della storia mondiale, la Rivoluzione francese, il loro caratteristico interno, il chiostro, antichissimo motivo ellenistico-o ellenistico-orientale. rientale. Il palazzo e la casa di abitazione privata, pur continuando ad esistere nel Medioevo, non hanno quasi alcuna importanza per la storia dello stile; inoltre il loro stato di conservazione assai precario ce li rende assai meno chiari e leggibili delle costruzioni religiose, nelle quali le grandi comunità ecclesiastiche e gli ordini religiosi hanno avuto un ruolo attivo e di alto significato storico. Gli architetti ecclesiastici, unitamente alle loro maestranze saldamente organizzate (i conversi) hanno potuto diffondere entro un largo raggio i loro particolari modi e tecniche architettoniche; cosí per esempio i cluniacensi e i cistercensi furono i pionieri del nuovo stile nato in Francia. Ancora alla fine del Medioevo gli ordini italiani dei frati mendicanti esercitarono un’influenza straordinariamente forte. La casa di abitazione del primo Medioevo si sviluppò, come si può facilmente supporre, da quella dell’antichità; le ville romane furono per molto tempo prese a modello. Persino il castello, un tipo di costruzione munita, che sembra cosí originale del Medioevo e che riflette in modo cosí spiccato il carattere eroico di questa seconda «barbarie», pare derivi da modelli e schemi preesistenti.
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Solo nel tardo Medioevo, quando con l’incipiente processo di secolarizzazione, vivo specialmente in Italia, cominciò a risvegliarsi l’elemento laico e borghese, fece la sua comparsa il Palazzo del Comune. In Italia infatti i Comuni – che ricordano per molti lati i municipi muni cipi romani – si consolidarono nelle lotte sostenute contro i poteri centrali del Papato o dell’Impero. Anche le organizzazioni nomadi di maestri costruttori laici, soprattutto lombardi (episodi di questo genere pare si siano verificati anche nell’Oriente greco), ci riconducono senz’altro alla tradizione antica. Quanto piú andiamo indietro nel tempo, tanto più i monumenti superstiti dell’arte medievale appaiono confusi e alterati. I posteri hanno trattato con noncuranza le opere architettoniche medievali, e spesso, guidati dalla loro diversa concezione formale, ne hanno modificato le forme, imprimendo loro un nuovo carattere, quando addirittura non le hanno distrutte. Riconoscere queste alterazioni, e possibilmente ridonare ai monumenti il loro aspetto originale costituisce una sezione tanto difficile quanto vasta della «critica dei testi» architettonica. Guasti e distruzioni irreparabili furono operati anche dallo «storico» secolo xix, con i suoi sedicenti restauri «conformi «conformi allo stile», tanto più gravi in quanto non sostituirono alla vecchia forma una nuova che fosse valida per sé, come era avvenuto in epoche precedenti. Per ciò che riguarda la scultura, la cosiddetta «arte plastica» (una classificazione puramente empirica fissata e conclamata dal classicismo, secondo pretese leggi di stile, e per altro assolutamente inapplicabile all’arte medievale), dobbiamo osservare che essa occupa un posto assai meno importante di quello che occupava nella civiltà pagana: le ragioni di questo fatto vanno cercate nell’ethos della nuova religione. Il monumento pubblico, penetrato dalla tarda antichità nel Medioevo e destinato esclusivamente a certi usi ufficiali, venne, in
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conseguenza dell’ethos cristiano, scomparendo quasi affatto, per ricomparire soltanto molto tempo dopo. Statue e rilievi (due forme della scultura anch’esse scindibili solo empiricamente) furono usati per le ricche decorazioni degli esterni delle cattedrali romaniche e soprattutto di quelle gotiche. Soltanto nell’epoca successiva la statua monumentale si sciolse dal suo legame con l’architettura. Una categoria particolare di statue, quelle dei monumenti sepolcrali, accompagnò nel nord come nel sud il progressivo ritorno rinascimentale all’«individuo», procedendo verso un tutto tondo plastico sempre piú sciolto, e ponendosi, nel settore dei monumenti privati e solo in questi, come un surrogato del monumento pubblico dell’antichità. Del resto il carattere dei nostri monumenti pubblici (un «genere» non indigeno per il nostro gotico Settentrione, ma importato dal sud) risentirà per molto tempo di tale scultura privata. Nella scultura medievale italiana emergono per importanza i pulpiti e le porte di metallo; queste ultime, derivate dall’antichità, dall’antichità , sono quasi le sole opere che tengano in vita la tradizione delle antiche fusioni in bronzo, e agli inizi del Rinascimento italiano condurranno a un rinnovamento in senso moderno di questa antica tecnica. La scultura medievale (almeno quello che di essa si è salvato dal purismo di molti secoli dopo), come ogni autentica arte di fondo popolare, tende essenzialmente ad effetti coloristici ed è molto vicina alla pittura, dalla quale, come si è già detto, può distinguersi solo con criteri artificiosi; anche i rilievi in bronzo, che spesso venivano dorati a fuoco, denotano questa tendenza all’effetto pittorico. Le fonti piú antiche e imponenti per la storia dello «stile» medievale, giacché le pitture catacombali hanno un valore soltanto antiquario (e come tali sono state
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trattate), sono costituite dai mosaici parietali delle chiese del Sud. Il mosaico che è tecnica anch’essa derivata dall’antichità, giunse anche nel Nord, ma ivi presto scomparve. Nel Nord il ruolo dei mosaici fu tenuto dalle pitture murali chiesastiche, eseguite con la primitiva tecnica del colore a calce; nel tardo Medioevo pitture di questo genere si avranno anche nell’arte profana. In Italia in questo tempo si diffonde la tecnica dell’affresco, resistente al tempo e veramente monumentale. Un posto molto importante invece nell’arte medievale nordica è tenuto dalle vetrate dipinte, che hanno uno sviluppo parallelo e connesso a quello dell’architettura gotica e che nella loro tecnica originale, affine in certo senso a quella del mosaico, raggiungono effetti diversi ma altrettanto monumentali. Possiamo considerare la vetrata come una specie di corrispondente nordico delle tappezzerie ricamate o tessute, e un surrogato meno costoso dei «panni dipinti» in uso in Italia; anch’essa fu usata fin dall’inizio anche per l’arte profana, e nel basso Medioevo costituirà un’ingente sezione di quest’arte la cui importanza verrà sempre aumentando. Un altro settore importantissimo dell’arte medievale è costituito dalla miniatura, forma tipicamente nordica e privata, nonostante la sua origine classica, che gli italiani non sentirono mai profondamente benché vantino un grande miniatore come il Clovio (che era uno «schiavone»). Si può dire che la miniatura sia la fonte piú importante per la conoscenza della pittura medievale, specialmente alle sue origini. Nel primo Medioevo essa fu quasi esclusivamente ecclesiastica, prodotta nelle officine dei conventi, e solo molto piú tardi essa passò nelle mani di artisti laici. Il ritrovamento e la suddivisione, secondo le epoche e i luoghi di provenienza, dell’immenso materiale miniaturistico costituisce uno dei compiti piú importanti della filologia della storia dell’arte,
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lavoro che solo da poco tempo si è cominciato a condurre in maniera sistematica. La pittura di cavalletto e su tavola cominciò nell’alto Medioevo italiano, derivando dalla minuta pittura di devozione dell’Oriente, e raggiunse nella Rinascenza bizantina singolari effetti monumentali. Il Nord invece si mantenne generalmente fedele a un genere di pittura di piccole proporzioni, intima e domestica, legata anche nella tecnica alla miniatura. Una pittura di grandi proporzioni, ma di una monumentalità diversa da quella italiana, verrà coltivata in Germania solo nel periodo del tardogotico, con quei caratteristici monumenti che sono i grandi polittici, nei quali si realizza uno stretto legame tra pittura e scultura. I giganteschi «retablos» spagnoli, come generalmente tutta l’arte della penisola iberica, sono connessi con l’arte nordica. Come non è possibile distinguere pittura e scultura nelle officine medievali, cosí non si può operare una distinzione tra «arte» ed «artigianato». Tutte le opere di espressione stanno su uno stesso piano, e noi rifiutiamo la denominazione di «arti minori» che fu applicata alla miniatura o alla tappezzeria in tempi accademici e letterati. Fonti importanti per la storia dell’arte medievale sono anche i lavori in oro e in avorio, gli smalti, i nielli e anche i prodotti dell’arte dell’incisione allora agli inizi; piú tardi invece essi passeranno in seconda o in terza linea. Si è già detto prima quale conto si debba fare della letteratura che il Medioevo ci ha lasciato sulla propria arte. Una considerazione storica dell’arte, quale ebbe l’antichità, e quale fu ripresa dalla Rinascenza italiana (che fu maestra in questo a tutta l’Europa), doveva per forza rimanere estranea al Medioevo: la sua concezione profondamente astorica faceva consistere l’intima essenza dell’opera d’arte, il quid individuale e irripetibile, in un simbolo di qualcosa di trascendente.
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La tradizione in questo settore è estremamente rara; i primi documenti di qualche importanza risalgono al secolo xiv; e i primi tentativi di comprensione storica si hanno con i racconti aneddotico-biografici. Fu il Ghiberti, che era cresciuto in una bottega ancora trecentesca, il primo a scrivere non solo una vera e propria «storia dell’arte», ma anche la propria biografia, non di sé come uomo pratico, ma come artista. Nel Nord, le notizie sull’arte contemporanea che si trovano in cronache o annali sono numerose, ma vanno considerate soltanto come materiale antiquario che raramente può venire utilizzato per fini storici; giacché in generale questi repertori, in certi casi straordinariamente ricchi di notizie (ad esempio le cronache pontificali), sono materiale morto. Le notizie che vi si trovano non riguardano le opere d’arte in se stesse, ma gli elementi accessori di esse; vi si parla dell’arte in quanto asservita a questo o a quell’uso religioso o profano; tali notizie possono semmai avere qualche valore dal punto di vista della storia della cultura. Maggiore importanza hanno invece le notizie tramandateci dal Medioevo sulla tecnica artistica, perché c’introducono immediatamente nel «clima» delle sue officine. Ogni opera d’arte, benché nella concezione medievale ne sia sempre incerta la posizione tra opera «liberale» e opera «meccanica», è collocata in questi trattati sul fruttuoso terreno dell’opera artigiana. Anche la Schedula di Teofilo, che pur col suo caratteristico sfondo di cultura claustrale e le sue digressioni di carattere religioso è uno degli scritti piú importanti del genere, è poco più di una raccolta di ricette, e questo stile da ricettario gastronomico è piú o meno comune a tutti i trattati – abbastanza numerosi – di tecnica della miniatura e della pittura su vetro fino alla fine del Medioevo. Il Libro dei pittori del Monte Athos, benché appartenga al mondo orientale e sia molto posteriore, è invece un
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documento molto importante per capire il carattere «formulistico» del Medioevo. Uno dei documenti piú significativi del gotico è il Livre de portraiture di Villard de Honnecourt, perché in esso il testo è in funzione delle illustrazioni. Questo libro non va interpretato come un album di schizzi (che sarebbe un’interpretazione in senso moderno), ma come un manuale di «proporzioni», naturalmente in senso medievale. È un libro prezioso per lo storico dell’arte, perché introduce nello spirito della pittura e dell’architettura gotica meglio di quanto non facciano tutti gli scarsi libri tedeschi posteriori sull’argomento. C’è poi il trattato del Cennini, il grande monumento letterario della scuola giottesca, già pervaso di spirito rinascimentale, che apre la lunga serie della letteratura artistica italiana. Piú importante che per qualsiasi altro periodo storico, data la concezione medievale, è la letteratura ecclesiastica, principale fonte per le notizie riguardanti l’iconografia. Inni, prediche, trattati morali e raccolte di leggende, scritti liturgici e brevi papali, l’imponente enciclopedia della Scolastica, con i suoi «specchi del mondo», dei quali i portali delle cattedrali gotiche paiono la traduzione scultorea; i fantasiosi scritti di storia naturale e di geografia, i bestiari, i lapidari, ecc., e infine la grande letteratura narrativa, di cui il roman medievale è la piú significativa espressione, sono tutte fonti che non vanno trascurate. Un altro elemento straordinariamente importante per la comprensione dell’arte medievale e soprattutto della pittura è il titulus, ossia l’iscrizione che ha lo scopo di illuminare lo spettatore sul contenuto spirituale delle immagini, e di condurlo, al di là delle apparenze sensibili e particolari, allo spirito trascendente; il titulus è qualcosa di strettamente unito all’opera d’arte, e se ne staccherà soltanto per la forza dei tempi, malgrado l’e-
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sistenza di un «genere letterario» particolare, che durò dalle origini del cristianesimo fino al Rinascimento. Anche il titulus è un ricorso della prima «eroica barbarie» giacché qualcosa di simile esisteva nella civiltà greca piú antica, da cui si sviluppò la forma dell’epigramma (specie di scherzo, artisticamente autonomo, il cui nome ricorda la sua origine). Dopo quanto si è detto, si può facilmente capire come la letteratura teologico-filosofica, vera protagonista e testimone della nuova Weltanschauung , fornisca la giusta chiave per la comprensione del Medioevo. Bisogna però guardarsi dal dare interpretazioni troppo moderne a un pensiero cosí radicalmente diverso da quello contemporaneo o da quello dell’antichità, ed è anche da evitare il tentativo (che pure è stato fatto) di utilizzare in senso moderno le dottrine sull’arte dei Padri della Chiesa, di san Tommaso o di Dante. Il moderno concetto di plagio non esisteva o quasi, nel nostro senso, per il Medioevo (e anche per molto tempo in seguito), e la cultura classica, benché abbia avuto nel mondo medievale un posto considerevole, fu assimilata soltanto apparentemente. Anche la sistemazione che il Medioevo diede alla filosofia aristotelica sembra non discostarsi molto dalle moderne interpretazioni: pure questa filosofia non fu intesa nel suo vero significato. In realtà quello che può dirsi è che l’Evo moderno venne liberandosi con molta fatica dalle pastoie della tradizione medievale; le prime tracce si trovano soltanto nel primo umanesimo fiorentino, e in pensatori isolati come Nicolò da Cusa. Ancora in una personalità come quella del Petrarca, pur cosí ricca di elementi nuovi, sono ancora visibili, nel suo intimo contrasto, ineliminabili tracce di spiritualità medievale. La Rinascenza si rivela ancora una volta figlia del Medioevo.
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Capitolo terzo
Contributi dei singoli popoli
Noi limitiamo di proposito la nostra trattazione all’Occidente cristiano, dove fiorí il «nostro» Medioevo. L’Italia costituí sempre un’unità per sé stante di fronte alla Francia e alla Germania, e il Medioevo vi ebbe un carattere cosí particolare, che spesso si è dubitato se essa abbia avuto un Medioevo, nel senso che si dà generalmente al termine. Non senza motivo essa, conscia dell’antitesi, coniò il termine «gotico» per designare il Medioevo nordico. Anche l’Oriente cristiano, con la sua raffinata civiltà bizantina e il mondo dei vassalli slavi, occupa una posizione del tutto autonoma, nonostante i notevoli influssi esercitati sull’Occidente, soprattutto sull’Italia. In Oriente il primato spirituale appartiene ai Rhomaei, come in Occidente appartiene ai Franchi (ancor oggi l’uomo del Levante chiama gli Europei con questo nome) e Costantinopoli è, per molti aspetti, l’equivalente orientale di Parigi, la capitale dell’Europa gotica. Dietro il Medioevo greco c’è il Medioevo islamico, arabo-persiano (già il Vasari aveva avvicinato, con geniale intuizione, la barbarie «gotica» a quella «greca»). Noi dunque prenderemo in considerazione soltanto l’Europa «gotica». Quando diciamo Europa intendiamo soprattutto i tre grandi paesi centro-europei, Francia, Germania e Italia (tra i quali i primi due formano, rispetto al terzo, un’unità autonoma conservata malgrado tutti
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gli scambi culturali), giacché tutta l’Europa occidentale, dalla Spagna all’Inghilterra, segue la corrente della cultura francese, mentre i Paesi Bassi, i paesi scandinavi, i regni slavi di Polonia e Boemia e la cattolica Ungheria appartengono all’area linguistica tedesca. Praga e Cracovia hanno l’antico diritto municipale germanico e Buda vecchia è ancora oggi una città tedesca. Ma il vero centro intellettuale del basso Medioevo è l’Ile de France, con la sua capitale Parigi, sede di una monarchia fortemente accentrata. L’Ile de France fu la patria del gotico e della langue d’oïl , e il vero centro della Francia; fu il paese dove si realizzò una singolare unione etnica tra la stirpe dei Franchi, il popolo d’origine germanica piú intellettualmente dotato, e quella dei Celti con la loro civiltà romanizzata. Paragonata all’Ile de France, anche la civilissima Provenza, che influenzò grandemente Italia e Spagna, appare nient’altro che una delle tante regioni «romanze». L’Ile de France fu il centro di sviluppo di quel grandioso complesso di opere d’arte che è la cattedrale gotica, fu il centro della grande letteratura epica, della contrappuntistica medievale, della filosofia scolastica (nella cui roccaforte, l’Università di Parigi, ebbe vasta risonanza il pensiero del grande filosofo italiano Tommaso d’Aquino), e infine della letteratura e del costume cortese-cavalleresco. Benché il Meridione della Francia con la sua antica civiltà latina fosse cosí distante dal Settentrione «barbaro» e normanno, e Guascogna e Bretagna conservassero la loro autonomia anche nel campo della lingua, tuttavia in Francia, come in tutto l’Occidente europeo, fu assai presto raggiunta l’unità culturale. La Germania invece non solo non conobbe questa rigida unità culturale, ma fu caratterizzata da un estremo atomismo sia politico che culturale; solo per poco tempo, come è noto, essa ha avuto una capitale, all’epoca delle dinastie straniere venute dall’Occidente,
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quando i Lussemburgo elessero Praga a capitale dell’impero. Il motivo tragico che accompagna tutto lo sviluppo storico-politico della nazione tedesca, e che la guerra mondiale ci ha posto ancora una volta davanti agli occhi nella sua paurosa realtà, è già visibile agli inizi del Medioevo. La Germania, come l’Italia, la nazione che le è sorella nel destino, ha dovuto subire nel suo interno le dolorose lacerazioni prodotte dalla grande lotta tra potere temporale e spirituale, quella lotta che in Oriente si era chiusa con l’assoggettamento del secondo al primo. Un tragico destino impedí a questo grande paese del centro-Europa di diventare una nazione unita come la Francia o la Spagna. Il periodo piú significativo dell’arte tedesca (se si fa eccezione per il tardogotico, che del resto non rientra nei limiti cronologici del periodo che trattiamo), coincide con l’inizio dell’alto Medioevo e del romanico; e quasi tutti i monumenti piú significativi sono proprio di quest’epoca. Ma questa fioritura di singolarissime opere d’arte fu interrotta dalla penetrazione del gotico francese, che trasformò tutta la cultura tedesca, improntando di sé anche le manifestazioni piú isolate e particolari. Questa penetrazione produsse però la meravigliosa pittura tardogotica dei Paesi Bassi e la musica che preludeva a quello sviluppo che avrebbe poi condotto la Germania, per la prima e unica volta nella storia, a una posizione di primato in questa forma d’arte. Anche in Germania, come in Francia, esisteva notevole differenza tra Nord e Sud, con la differenza che in Germania era il Meridione ad avere un’indiscussa supremazia spirituale. Le varie regioni tedesche avevano una fisionomia molto diversa; tra esse le principali erano: la bassa Sassonia, che i Romani non erano mai riusciti a conquistare, e fu civilizzata per la prima volta da Carlo Magno; la regione renana; la regione ale-
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manno-bavarese, che faceva parte dell’antico impero romano. L’Italia, al centro del bacino mediterraneo, fece sempre parte a sé. È sorprendente il fatto che la teoria dei «tipi di espressione», formulata dal Rutz e dal Sievers, assegni alla sola Italia un «tipo» per sé stante (gli altri «tipi» sarebbero quello germanico, e quello – molto piú esteso – celtico-romanzo-slavo). Anche l’Italia, come la Germania, con cui ebbe in comune il singolare destino di una lotta secolare per il raggiungimento dell’unità nazionale, presentava una fisionomia molteplice e frammentaria; ma essa almeno, a differenza della Germania, aveva in Roma un centro spirituale, che era anche simbolo vivente di quell’antica civiltà cui gli altri paesi dell’Occidente avevano dato un contributo molto secondario. D’altra parte, le differenze tra le regioni italiane, dovute alla particolare forma provinciale della civiltà italiana, e ancora avvertibili nella varietà dei dialetti, sono forse piú notevoli che in Germania. Queste differenze tra le civiltà regionali, svoltesi entro confini corrispondenti ancora all’antica divisione augustea in province, sono visibili ancor oggi. La parte continentale dell’Italia è divisa da quella peninsulare dalla catena degli Appennini; e ancor oggi il Rubicone conserva quel valore ideale di confine tra due civiltà che aveva ai tempi di Cesare. A nord di esso stanno la vecchia Gallia Cisalpina (che deve il suo nome attuale ai Longobardi, come la Gallia Transalpina lo deve ai Franchi); il Veneto, assai diverso da essa, anche etnicamente; dal lato opposto: la Liguria che, benché abbia avuto una situazione politica analoga a quella del Veneto, ne è sempre stata profondamente diversa; il Piemonte e il Friuli, regioni di confine e quindi di scambi culturali con la Francia e l’Austria (anche i dialetti piemontesi e friulano hanno molta somiglianza con le lingue dei due paesi confinanti). Al di là degli Appennini,
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nella penisola vera e propria, la Toscana, l’antica Etruria, che da tempi remotissimi conserva gelosamente la sua civiltà provinciale, e l’Umbria costituiscono in ogni senso il cuore dell’Italia. Le antiche regioni dello Stato della Chiesa fungono ancora da mediatrici fra il Meridione e il Settentrione «lombardo». Il Lazio, il patrimonio di san Pietro, con Roma caput mundi, l’antica Magna Grecia e la Sicilia, nella quale si sovrapposero le civiltà greca, araba e normanna, occupano tutte posizioni culturali indipendenti. Ma l’importanza dell’Italia meridionale, fatta eccezione per Napoli che è rimasta sempre un centro importante, dalla Rinascenza in qua è in progressiva diminuzione. La funzione dell’Italia come ponte tra la civiltà orientale e quella occidentale è palese negli scambi culturali che questo paese ha avuto con la Provenza da una parte e l’Oriente greco dall’altra. L’influenza politico-culturale dell’Oriente ha avuto una funzione importantissima nel ducato bizantino di Venezia, e spesso è stata trasmessa da questo alle regioni meridionali attraverso l’esarcato di Ravenna. Come si dirà meglio in seguito, l’Italia, l’unico paese dell’Occidente che avesse dietro a sé un grande passato di cultura, che non poteva essere completamente dimenticato, accolse l’espressione piú alta della spiritualità medievale, il gotico, solo dopo averla profondamente trasformata per adattarla alle proprie esigenze spirituali. In fondo essa non ha avuto un vero Medioevo nel senso che questo termine ha per il resto dell’Occidente; infatti, il secolo «eroico» del suo Medioevo, il Trecento, è anche il primo secolo della sua Rinascenza.
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Capitolo quarto
Origini e formazione del linguaggio artistico medievale
Il cristianesimo, la religione che si impose tra le molte fedi trascendenti della tarda antichità, rimase strettamente legato a quell’epoca storica, conservandone molti caratteri. Come ogni culto, esso contiene in sé elementi antichissimi: anche oggi sugli altari delle chiese cattoliche, dove i sacerdoti vestiti dei sontuosi costumi della fine dell’antichità celebrano il sacro ufficio, risuona ogni giorno l’antica lingua di quei tempi nelle cadenze musicali proprie dell’epoca. I monumenti piú antichi del cristianesimo, le pitture catacombali e i sarcofaghi, non presentano sostanziali differenze di stile rispetto ai prodotti delle botteghe pagane; persino la nuova significazione figurale erompe lentamente da forme e schemi tradizionali. Anche le catacombe giudaiche presentano differenze appena percettibili. Le prime rappresentazioni allegoriche cristiane (e qui è evidente il legame tra cristianesimo e giudaismo, religione priva di immagini) si mostrano timide e diffidenti nei riguardi della figura umana, e non soltanto perché essa era un uso pagano. Il cristianesimo primitivo preferisce servirsi di simboli: v’è in esso – come nella tarda antichità – un ascetismo intransigente, al punto da non ammettere la riproduzione della figura umana. La cosiddetta «iconoclastia» non è un episodio unico nella sto-
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ria; il furore contro le immagini si risveglia nelle epoche di fanatismo religioso; innumerevoli furono, ad esempio, i capolavori distrutti durante la Riforma. Nei grandi mosaici parietali (forma d’arte ereditata anch’essa dall’antichità), il cristianesimo (che era giunto assai presto al trionfo, e già all’inizio del secolo iv aveva ottenuto pubblico riconoscimento) esprime i suoi inni gloriosi di chiesa trionfante, ancora pervasa, naturalmente, da spiriti allegorici e simbolici. La figura che campeggia sui sarcofaghi è quella del Cristo, il Messia, il taumaturgo (figura singolarissima della tarda antichità, alla quale non sapremmo avvicinare altri che Apollonio di Tiana e il suo evangelista Filostrato), con i suoi precursori dell’Antico Testamento. La rappresentazione di un eroe martirizzato non si confaceva di certo all’ethos dell’antichità; perciò l’episodio della crocifissione viene riprodotto assai raramente in questo periodo. Lo stato d’animo fondamentale di quest’arte paleocristiana è un sentimento festoso di trionfo e di liberazione, un sentimento di ferma fede e di lieta speranza in un futuro ritorno dell’età dell’oro alla fine dei giorni. Un tema assolutamente nuovo nell’arte cristiana è l’illustrazione di quella che è la fonte della rivelazione divina, del testo sacro che non può essere lasciato al capriccio dell’interpretazione individuale, e a cui gli illiterati accedono solo attraverso l’autorità e la spiegazione dei sacerdoti (anche se poi, intorno a questo «Libro per eccellenza» [biblia], poté crescere una vegetazione quasi selvaggia di opere di ogni genere, di testi apocrifi, soprattutto Vangeli, alcuni residui dei quali sono rimasti nell’arte, e solo a poco a poco sono scomparsi). Il libro illustrato, che sostituisce l’antico volumen, di cui il famoso manoscritto illustrato conservato in Vaticano con la storia di Giosuè conserva ancora la forma, fa la sua comparsa già nella tarda antichità; ma nel
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Medioevo esso assumerà un’importanza straordinaria, offrendo un ricco campo di attività a una speciale categoria di pittori, i miniaturisti. Durante tutto il Medioevo e per buona parte del Rinascimento i documenti per la storia della pittura sono costituiti in prevalenza da questi libri miniati. Ma non è soltanto per la scomparsa della cosiddetta «arte maggiore» che la miniatura occupa un posto cosí notevole (lo stesso motivo del resto per cui ha tanta importanza, per la storia dell’arte antica, la pittura fittile): essa ha un valore particolare, soprattutto nel Nord, appunto per la straordinaria importanza del «Libro per eccellenza». È notevole inoltre il fatto che la miniatura, almeno nel primo Medioevo, sia opera quasi esclusiva di artisti ecclesiastici, prodotto delle officine conventuali, e solo lentamente passi nelle mani di corporazioni di artisti laici; fu soltanto allora che il materiale profano (la grande letteratura narrativa medievale) cominciò a fornire, in misura sempre maggiore, soggetti alla miniatura (testimonianza di un processo di secolarizzazione che condurrà lentamente alla dissoluzione dell’antico linguaggio figurativo, i cui residui rimarranno tuttavia visibili ancora per molto tempo). L’«immagine», nonostante l’avversione dell’ascetismo e il tentativo di subordinarla scolasticamente alla «scrittura», acquista in questo periodo un significato nuovo e profondo. A cominciare dalla fine dell’antichità la parola delle guide spirituali del cristianesimo (specie in Oriente) cominciò ad essere diffusa tra gli indotti e i «poveri di spirito» per mezzo delle immagini, usate come una scrittura. Nel basso Medioevo le bibliae pauperum diventeranno libri popolarissimi, veri e propri compendi della spiritualità del Medioevo occidentale, resistendo in gran numero anche dopo l’invenzione della stampa, anzi, specie nell’estremo Nord europeo, si manterranno per molto tempo anche nell’era moderna, vetusti residui di una civiltà tramontata.
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Le grandi composizioni a mosaico delle basiliche paleocristiane esigevano da parte degli artisti una padronanza della forma assai superiore a quella richiesta dai rilievi dei sarcofaghi (forma d’arte assai presto scomparsa); si capisce perciò come si siano formate determinate formule figurative, le quali non potevano essere desunte se non dal patrimonio dei canoni figurativi dell’antichità, o dalla vita stessa dell’antichità, nei suoi aspetti e nelle sue espressioni piú alte e solenni. Come il tipo «classico» dell’eroe e del filosofo era stato applicato al fondatore della nuova religione, cosí è evidente ora un’assimilazione delle figure piú alte dell’autorità religiosa a quelle dell’autorità mondana, tra le quali la fantasia figurativa degli artisti doveva necessariamente collocarle. Il fatto che la fantasia popolare vedesse in Dio Padre una specie di papa-re, è caratteristico della mentalità di tutto il Medioevo. Tutto a quel tempo aveva un carattere di fasto e di pomposa solennità; la curia romana governava i fedeli con metodi ereditati dall’impero, e la scala della sua gerarchia corrispondeva ai gradi della macchina burocratica imperiale, con tutto il suo fasto orientale e la retorica caratteristica della tarda antichità. L’antichissimo nome del sommo sacerdote romano ( pontifex maximus) venne adattato al piú alto rappresentante della gerarchia ecclesiastica. I medaglioni cesarei del tempo dei Costantiniani rappresentano il cesare o l’imperatrice in trono come una pietas augusta, con un bambino in grembo e l’aureola, antichissimo simbolo di potere; nessuna meraviglia quindi se essi venivano interpretati cristianamente dal popolo come rappresentazioni di Cristo o della Madonna. I costumi delle figure sacre, o i mantelli listati di porpora degli apostoli, ricordano la pompa e il fasto delle corti profane; la dalmatica dei diaconi, per esempio, era un costume burocratico tardoromano, proveniente dalla patria di Diocleziano, l’ultimo grande imperatore paga-
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no, che aveva raccolto nel suo forte pugno di soldato illirico l’impero avviato allo sfacelo, dando ad esso quell’artificiosa struttura burocratica ed orientalizzante, complicata da titoli e cariche nuove e da una complessa etichetta di corte, che fu poi ereditata dai Costantiniani. L’antica immagine della Nike alata si trasformò in quella dell’angelo dell’Annunciazione che impugna un’asta a forma di croce. La Nike era una delle poche figure semidivine del paganesimo che il cristianesimo poteva accettare, essendo da molto tempo divenuta qualcosa di puramente decorativo. Le figure dei Magi persiani che adorano il Cristo ripetono la scena dei barbari inginocchiati che offrono il tributo: dovunque è già in atto quel processo di formazione di analogie che il Medioevo nel suo carattere dogmatico formalistico e tradizionale porterà innanzi, e che si può osservare in tutti i campi della vita pratica o spirituale. Per citare ancora un esempio: la salita al cielo del profeta Elia su un carro di fuoco segue lo schema del mito del dio del sole sorgente; c’è qui una trasformazione tipicamente medievale, evidente anche nella somiglianza dei nomi (Helias-Helios). Potremmo seguire molto piú da vicino questo processo, se potessimo avere ancora davanti agli occhi i grandi cicli di figurazioni ufficiali della civiltà di palazzo antico-bizantina, di cui ci rimane invece soltanto una scarsa tradizione letteraria. Non è certo un caso che nelle basiliche cristiane l’arco che introduce nell’abside (la quale è di solito decorata con la Maiestas Domini in trono) porti l’antico nome di «arco di trionfo»; del resto anche la «maestà», come pure il trono vuoto (l’«etimasia»), che ricorre spesso nelle rappresentazioni antico-cristiane o bizantine, deriva dal cerimoniale burocratico della tarda antichità. Non dobbiamo pensare che tutte queste cose siano
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soltanto documenti iconografici esteriori, importanti più per la storia della cultura che per la storia dell’arte vera e propria; esse ci introducono effettivamente nell’essenza dell’arte medievale. Questo innesto della nuova civiltà cristiana sopra le forme della tarda antichità è un processo che riguarda naturalmente tutti gli aspetti della vita, e non soltanto l’arte, e non potrebbe essere descritto meglio che con le belle parole di Hermann Usener, che ha fatto molta luce su tutti questi problemi: «Tra la montagna dell’insegnamento di Cristo e la pianura del paganesimo c’è una zona intermedia di dominio comune alle due religioni. Questa zona è costituita anzitutto dalle concezioni infantilmente naturalistiche del divino, che possono essere considerate in generale patrimonio comune dello spirito umano. Poi, da uno spazio piú esteso, paragonabile al bassofondo lasciato asciutto dalla marea, sul quale si riversa il flutto della civiltà pagana, arginato lentamente dal cristianesimo. Ma il terreno è rimasto quello che era, e su di esso è fiorita la ricca poesia cristiana, la poesia dei santi, degli angeli, dei diavoli, del paradiso e dell’inferno; su di esso ha prosperato una quantità di usi e pratiche religiose adatti al livello culturale del popolo, nell’antichità come nel Medioevo, e che potrebbero rientrare nel concetto di superstizione, se non avessero avuto e non conservassero tuttora un significato religioso». Nulla meglio della strana rappresentazione della Trinità (con tre volti fusi in una sola testa) può mostrare come elementi antichissimi possono avere vita straordinariamente lunga se accolti da una tradizione religiosa. La strana figura comparve per la prima volta sul suolo pagano delle Gallie e in Oriente (sulle monete degli Arsacidi persiani); accolta poi dalla tradizione cristiana, sembra sia passata dalla Francia in Toscana; qui Dante l’ebbe presente per la descrizione della sua divinità infernale dai tre volti, e qui sopravvisse fino al Cinque-
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cento, altrove, specie in Austria, anche piú tardi. Fu il concilio di Trento che l’abolí nel quadro di una piú ampia purificazione della religione cattolica da molte ingenue sopravvivenze di epoche anteriori, e di una sempre piú rigida razionalizzazione della fede. Non di rado l’arte e il pensiero cristiano presentano un doppio aspetto di modernità e di vecchiezza nello stesso tempo, come certi figli di genitori maturi. Nell’arte cristiana, la poetica la retorica la logica e soprattutto le teorie musicali del mondo antico pesarono sui giovani elementi barbarici che essa accolse in sé come una corazza arrugginita; particolarmente istruttiva a questo proposito la lotta, piena di compromessi e continuata fino al secolo xvi, tra gli antichi modi ecclesiastici e la nuova armonia. L’episodio di quella strana figura a tre facce, di cui abbiamo testè parlato, è singolarmente significativo perché ci permette di penetrare il sottosuolo barbarico (nel senso degli antichi), che sussisteva in Oriente e in Occidente. Elementi cristiani si ritrovano già nel periodo di trasformazione dell’antichità classica, in quella cosiddetta «tarda antichità» che fu a lungo disprezzata come decadenza. Jacob Burckhardt, ingegno universale che superò di gran lunga i limiti di un solo campo di indagine e che la storia dell’arte può considerare il suo più grande rappresentante in senso assoluto, fin dalla sua prima opera di grandi proporzioni si occupò dell’età di Costantino; questo fatto è assai significativo, e si potrebbe affermare che la chiave per la comprensione del Medioevo in formazione va cercata proprio qui. Sfioriamo cosí la famosa questione dei «barbari» sulla quale si è disputato fino a ieri con unilateralità appassionata, spesso intorbidata da nazionalismi. In fondo è ancora la concezione elaborata, in forma ingenua e mitologica, dal Rinascimento italiano in omaggio a un certo sentimento nazionale e continuata poi nei secoli. Appli-
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cata con alquanta unilateralità (come spesso avverrà in seguito) ai barbari germani dell’Occidente, essa sopravvive poi nel nome di «gotico», e il Trissino ha potuto intitolare il suo poema, il primo poema epico italiano scritto secondo le regole, L’Italia liberata dai Goti. Ma già il Vasari (che aveva fatto sua quella teoria) aveva trovato un riscontro alla cattiva maniera artistica dei «nuovi Greci» in quella nuova e altrettanto cattiva che pretendeva importata in Italia dai barbari del Nord, dal loro nebbioso Settentrione. L’orientalizzazione della vita nella tarda antichità è un fatto che si pone allo storico con indiscutibile evidenza; e fu questa orientalizzazione e spiritualizzazione della vita che aiutò lo sviluppo del cristianesimo. Nei testi sacri della nuova religione (soprattutto nell’ Apocalisse, libro cosí importante per l’arte e la concezione cristiana del mondo, e cosí pieno di infinite lontananze), risuona senza dubbio un’eco dello spiritualismo orientale. Non si tratta di un processo puramente esteriore, che si possa spiegare semplicemente con l’infiltrazione dell’elemento popolare straniero, con la semitizzazione o l’episodio delle dinastie militari barbariche. Si tratta invece di una trasformazione interiore, come in ogni vero processo storico: qualcosa moriva e qualcos’altro nasceva. Il neoplatonismo, o il culto di Sabazio o analoghi culti spiritualistici sono manifestazioni che hanno un carattere fondamentale in comune; sono, per cosí dire, una delle facce di un fenomeno di cui il cristianesimo è l’altra. I nemici dell’impero romano erano sí i barbari che premevano ai confini, i Germani a nord, i Sasanidi a oriente; ma non furono essi a sconvolgere e a mutare radicalmente la civiltà del mondo antico. Essa non morí di morte violenta, ma subì una trasformazione e un rinnovamento interiori: «Ripeness is all». Questo processo in realtà fu ben aperto a tutto ciò che c’era di vivo in questi popoli antichi e nuovi nello stesso
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tempo, se ne avesse coscienza o no. Entro i confini dell’impero, il sottosuolo originario del variopinto mosaico etnico emerse sempre di piú attraverso il sottile strato della cultura romana. Uno degli elementi piú importanti di questo sottosuolo è senza dubbio l’elemento celtico, soprattutto in Gallia e in Britannia. I Celti infatti avevano una loro particolare forma di civiltà municipale, che accolse assai presto la cultura grecoromana, ma non ne fu completamente sopraffatta; avevano un’arte figurativa e una scrittura autonome, assai raffinate e sviluppate, e una classe di letterati e gente colta, quale non ci si aspetterebbe. L’importanza che questo elemento ha avuto nel primo Medioevo (accanto a quello germanico), non è facilmente determinabile attraverso le varie tradizioni, in genere poco chiare e divise: nemmeno oggi essa è stata messa a fuoco e studiata esaurientemente in tutti i suoi aspetti. Con questo non abbiamo intenzione di entrare nella questione dell’origine e della diffusione dei famosi ornamenti con motivi di animali e di intrecci, che è già stata dibattuta con molte dotte ragioni pro e contro, ma anche con argomenti approssimativi e secondari, e che è connessa con la questione degli «influssi»; è innegabile però che in essi si muove uno spirito nuovo, primitivo e raffinato nello stesso tempo, e che introducono una vera rivoluzione nel campo dei fregi ornamentali, spezzando come una vegetazione selvaggia i riquadri e le regolari campiture dei fregi classici. Prima di tentare di comprendere e definire questo spirito non sarà inutile soffermarsi un momento sui mutamenti avvenuti in un altro campo artistico, quello della musica. Qui il nuovo spirito medievale si mostra, per origini ed essenza, singolarmente autonomo rispetto all’antichità. Si è soliti considerare la musica come l’arte in cui l’espressione estetica si realizza in
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forma assolutamente pura al di là di ogni astratta teoria di dualità tra contenuto e forma, tra invenzione e tecnica esecutiva (che oscura il problema fondamentale delle arti figurative e sembra da queste scaturita); tanto che essa poté sembrare all’ultimo filosofo del romanticismo come l’espressione immediata dell’essenza del mondo. Già abbiamo accennato alla rima, elemento che ha le sue radici antiche e profonde nei modi primitivi della poesia popolare, e che veniva evitato dagli antichi come scorretto perché non rispondente al carattere solenne della «poesia d’arte». La rima fece la sua prima apparizione ufficiale negli inni del primo cristianesimo, conferendo ad essi un particolare carattere di «musica parlata». È sintomatico che l’elemento popolare in poesia e in scultura sia stato violentemente combattuto, in teoria e di fatto, dal neoclassicismo. Difatti fu proprio all’epoca del neoclassicismo che si tennero dotte dispute per stabilire se la rima, questa «grossolana, violenta, ripugnante maniera di differenziare la prosa dalla poesia» (è uno scrittore italiano del secolo xviii, il Gravina, che parla), che si è sostituita all’elegante e graziosa metrica quantitativa, provenga o no dall’Oriente. La questione, posta in questi termini, è assolutamente priva di senso, perché bada al fatto esteriore e dimentica il significato spirituale del fenomeno. La musica «d’arte» dell’antichità aveva asservito il suono alla parola, proprio come nelle arti figurative l’uomo e il corpo umano erano sempre stati in primo piano. Ma nel Medioevo l’uomo e tutto ciò che ad esso è connesso perde valore e significato; è naturale perciò che si abbia la riscoperta e la rivalutazione delle forze sotterranee, infinite e misteriose del cosmo, nascoste sotto il velo di Maia. Analogamente, con la nuova concezione musicale vengono messi in evidenza gli elementi originari del suono, nei loro rapporti super o subindividua-
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li; l’elemento armonico, concepito in maniera nuova e particolare, acquista sempre piú importanza. Si verifica insomma un grandioso passaggio dal canto parlato, plastico, individuale, sottolineato soltanto dal suono, alla musica «assoluta», la musica strumentale. È veramente strano che l’Italia, che fu la patria dell’opera napoletana (nata dal grande fraintendimento umanistico del dramma musicale antico) sia stata e sia tuttora cosí decisamente restia a questo sviluppo, cui pure ha cosí potentemente contribuito. Con un geniale presentimento Jean-Jacques Rousseau ha definito l’armonia (e non è improbabile che si facesse eco di opinioni ancora correnti al suo tempo) un’invenzione «gotica e barbarica». Oggi sembra indubbio che il sistema armonico occidentale (ormai già in fase di dissoluzione, come del resto è in dissoluzione la forma «rinascimentale», rigidamente architettonica, dei maestri classici, dal tempo del romanticismo e dell’ultimo Beethoven) debba cercare le sue origini in suolo barbarico. È certo che l’elemento, celtico, specialmente quello delle isole britanniche, ha avuto gran parte nella formazione del sistema armonico, e che esso è stato ad ogni modo perfezionato nella zona nord-occidentale dell’Europa; era come un’isola che ora sta scomparendo sopraffatta dal vasto mare del mondo, e soprattutto dagli influssi orientali, dove l’armonia è sempre stata considerata qualcosa di straniero e incomprensibile. L’Occidente, benché impedito dalla ferrea corazza della scienza scolastica e costretto a strani compromessi, ha lavorato fino alla fine del Rinascimento per gettare le basi teoretiche del sistema. È significativo inoltre il fatto che Zarlino (1558), il fondatore dei sistema dualistico basato sulla distinzione di maggiore e minore, nativo della città-ponte tra Oriente ed Occidente, Venezia, sembra aver avuto contatti con la teoria musicale arabo-persiana medievale. Questa teoria aveva
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conosciuto da molto tempo la polarità e l’importanza determinante dell’intervallo di terza come consonanza, sia pure per vie puramente intellettualistiche. Poiché in Oriente, invece dell’armonia «verticale» (riconducibile all’«accordo», quale fondamento della tonalità), si tratta di un’armonia «orizzontale», come bene è stato detto, ossia si tratta del rapporto reciproco degli intervalli. È ancora l’elemento originario e antico della «linea melodica», mentre il nuovo sistema occidentale, in lotta con gli antichi modi, da una parte rappresenta un impoverimento, ma dall’altra costituisce un nuovo legame rigidamente strutturale e un approfondimento della prospettiva musicale: il rapporto con la parola viene esattamente invertito. Ormai il suono con la dualità antitetica, insita nella sua natura acustica, di armonici superiori e inferiori manifestantisi in consonanza e dissonanza, comincia a imporsi e prende il sopravvento sulla parola individuale, finché alla fine si scioglie completamente da essa. Questa nuova polifonia raggiunge il suo grado piú alto nel fraseggio medievale, che inizia con la scuola di Parigi e culmina nell’arte dei Paesi Bassi dei secoli xv e xvi. Uno sviluppo analogo, anzi, fondamentalmente identico (ogni divisione tra le arti è esterna ed empirica), è avvenuto nelle arti figurative. Il carattere «romanzo» si formò anche qui sulla base dell’antico latino, con notevoli contributi di elementi popolari e influssi orientali; (l’Oriente è una specie di tesoreria cui l’Occidente attinge a ogni rinverdire di spiritualità misticheggiante). Il processo attraverso il quale i modi dell’antichità, nati in un clima spirituale tutto diverso, e diventati ormai, attraverso l’interpretazione bizantina, modi ecclesiastici, vennero modellati dal nuovo sistema armonico dell’Occidente in uno spirito completamente nuovo, che conduce alla loro distinzione in toni maggiori e minori, è lo stesso che portò alla trasformazione della basilica paleo-
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cristiana nella cattedrale gotica. Si sviluppò lentamente una musica strumentale profana basata su elementi popolari, che accompagnò la nuova lirica dei trovatori, soprattutto nella Francia meridionale; ma venne anch’essa attratta nell’ambito della predominante musica sacra. Gli strumenti stessi di cui essa si serví, furono, nonostante la conservazione, talvolta ostinata, della terminologia antica, del tutto moderni. Involucri privi di contenuto si trascinarono ancora a lungo; i nomi di cithara e lyra vivono ancora nelle nostre lingue moderne; ma sono soltanto nomi che coprono forme del tutto nuove (delle quali l’antichità non sapeva o non voleva sapere nulla) derivate dal folklore dei popoli barbarici del Nord e di quelli orientali. Il piú importante tra gli strumenti ad arco, adattato in Occidente alla polifonia, deve la sua esistenza a un complicato incrocio di quei due elementi. Quasi tutti gli strumenti della nostra moderna orchestra (in parte anche quelli di origine recente) sono di provenienza orientale; ma mentre essi sono rimasti in Oriente del tutto primitivi, o hanno avuto uno sviluppo autonomo, in Occidente sono stati trasformati e adattati alle diverse esigenze spirituali; tanto che qualcuno di essi, per esempio l’antichissimo liuto, che tutti ancor oggi chiamano «arabo», ha ripreso la strada dell’Oriente, a scapito naturalmente delle sue possibilità polifoniche. Solo l’Occidente conosce uno sviluppo veramente progressivo, che oggi è di nuovo a una svolta. Tutto ciò dimostra una volta di piú come ogni teoria che tenga conto degli «influssi» è valida senza dubbio per la storia della cultura ma ha un’importanza solo di terz’ordine per la storia dell’arte stilistico-individuale. La vecchia denominazione romantica di «bizantino», applicata allo stile romanico, era un fraintendimento non meno di quell’altra di «gotico». Anche nel campo musicale, la posizione dell’Italia è assolutamente autonoma. Avremo ancora occasione di
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dire come l’ars nova (monodia accompagnata da strumenti) uscita dalla Toscana sia entrata trionfalmente nel nord e si sia sostituita all’ars antiqua francese nel secolo xiv: si tratta ancora di un’arte «gotica» sviluppatasi su basi provenzali, ma con caratteri suoi autonomi e nazionali: anch’essa unisce l’antichissimo motivo del canto a solo, all’accompagnamento polifonico, unione che può ricordare quella della cupola sovrapposta alla basilica. L’ars nova è cresciuta in intimo legame con lo «stil novo» della poesia toscana: ancora sulla spiaggia del Purgatorio Dante si ferma, perduto in dolci ricordi, per sentir cantare Casella, musico e amico suo. Il confronto di quest’ars nova con lo «stil novo» e con la nuova maniera pittorica di Giotto non è, si badi, una semplice analogia; si tratta di un’affinità sostanziale. Dietro a tutti questi fenomeni spirituali c’è la nuova concezione trascendente che abbiamo tentato di definire nell’introduzione, e che è carattere predominante non solo nel cristianesimo ma in tutta la tarda antichità: si tratta cioè dell’assoluta antinomia tra spirituale e corporeo, dualità insolubile (perché trascendente) dalla quale né l’antichità né il Medioevo uscirono né potevano uscire; è l’aspirazione a infinite profondità spaziali e temporali, aspirazione che conduce a un annullamento finale dello spazio e del tempo, appunto per quel suo carattere di infinitezza. Gli antichi popoli dell’Oriente da tempo immemorabile hanno nel sangue questa concezione trascendente, e i popoli piú recenti ne hanno seguito volentieri le orme, giacché i giovani si sentono sempre piú fortemente attratti da ciò che è spirituale e senza confini che non da ciò che è terreno e limitato. La dissoluzione di quel linguaggio formale che abbiamo chiamato «classico», non lo si ripete mai abbastanza, è avvenuta dunque attraverso una dialettica interna, non per influssi esterni, barbarici od orientali. Questo linguaggio, sviluppatosi nelle antichissime sedi dell’Asia
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Minore, fu, come il suo corrispondente, la musica armonica e polifonica dell’Occidente, un momento unico della nostra civiltà mediterranea, e perciò in seguito sempre ardentemente vagheggiato come un Eden perduto (dobbiamo sempre tenere presente che all’origine gesti e suoni, linguaggio figurativo e linguaggio musicale sono strettamente connessi). Solo su tale terreno poteva nascere la teoria aristotelica della «mimèsi», che piú tardi fu grossolanamente fraintesa come «imitazione della natura», come fu fraintesa la concezione immanentistica dello stesso grande filosofo. Ma questo linguaggio «classico» non poteva restare a lungo isolato. La storia, in quanto realtà concreta, è un progredire attraverso eterni contrasti. Ogni stato di quiete in una astratta esistenza, come ogni trascendenza, non è altro che l’immagine di un’aspirazione dello spirito, il quale invece agisce senza sosta, e solo in questo agire è vivo e produttivo; è sostanzialmente un mito che culmina in un altrettanto astratto «non essere» (è il punto di arrivo del pensiero orientale, per il quale il mondo non si esperisce ma si subisce), come l’opera principale dello Schopenhauer termina con la parola Nichts (niente). Può darsi che dal punto di vista della «storia eterna ed ideale dello spirito» si tratti di un «ricorso» in senso vichiano; ma dal punto di vista della semplice storia, questo grandioso mutamento è un progresso. Seguendo la logica del suo sviluppo interno la spiritualità del mondo antico si era venuta avvicinando a quella dell’antichissimo Oriente e a quella dei giovani popoli barbarici, cosicché essa era spiritualmente disposta a riceverne e ad elaborarne gli influssi. Qualcosa di analogo sta avvenendo anche oggi sotto i nostri occhi: la nostra epoca, pur con piena consapevolezza (grazie all’avvenuta diffusione dello storicismo), ha accolto e sviluppato tutti i possibili influssi esotici e primitivi.
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Dallo stile greco del secolo v a. C., solenne e idealizzato, che è stato paragonato spesso al maturo stile gotico, si era passati attraverso il barocco dell’ellenismo, al realismo dell’arte romana, il quale, movendosi su antiche basi etrusche, ricorda da vicino i prodotti del primo Rinascimento toscano fiorito sullo stesso terreno. Questo realismo, che rispondeva esattamente all’ethos nazionale romano (ricordiamo a questo proposito l’uso romano di eseguire e conservare nelle case le maschere degli antenati, uso che fu ripreso nel Quattrocento), si sviluppò fino alle sue estreme conseguenze, fino alla riproduzione dell’apparenza fisica degli oggetti, la quale, in ultima analisi, dissolve le forme individuate e pone il fluttuante al posto del solido e del resistente. Fu questa la grandiosa fase dell’«impressionismo» antico, che poté essere capito a pieno solo dalla nostra epoca, passata attraverso un’esperienza analoga. È significativo che Leonardo, il grande artista che ha studiato fin nei particolari, in veste di scienziato (come farà piú tardi il Goethe), gli effetti della luce nello spazio, abbia rifiutato di fare dell’arte seguendo i principî scientifici da lui scoperti, perché cosí avrebbe dovuto eliminare il rilievo e il modellato plastico dei corpi. Questo impressionismo non aveva alcuna possibile via d’uscita (come non l’ebbe l’impressionismo ottocentesco); gli doveva quindi seguire una crisi simile a quella che noi oggi, in circostanze assolutamente diverse, stiamo sperimentando con l’espressionismo e in generale con tutte le forme di spiritualismo che dominano l’arte e la cultura contemporanee. Il nome di questo odierno movimento spirituale, che è un nome di battaglia e che perciò esprime solo parzialmente il suo programma, può ricordare la moderna concezione dell’arte intesa come «espressione», ma non ha nulla a che fare con essa, e non intende far altro che accentuare nel modo piú radicale possibile l’opposizione all’impressionismo testè concluso.
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Come avviene oggi, cosí anche allora l’intera concezione del mondo fu penetrata da elementi mistici e ascetici che la minarono dall’interno: non si trattò solo del neoplatonismo, con la sua teoria delle emanazioni, la sua demonologia e la sua intonazione contemplativa ed estatica; accanto ad esso sulla fine del pensiero antico si affermò il neoscetticismo, dottrina forse meno vistosa ma non meno significativa della prima. Essa, insegnando che non solo l’esperienza sensibile ma anche le essenze concettuali non sono altro che inganno, ha contribuito potentemente alla dissoluzione della concezione classica. I due piú notevoli rappresentanti di queste due dottrine filosofiche, Plotino e Sesto Empirico, sono vissuti nel secolo iii d. C., proprio all’inizio di questo periodo di transizione. Quando la «forma illusoria» o «apparenza» si fu sostituita alla presunta realtà oggettiva delle forme, non ci volle molto per rompere anche quest’ultimo legame con la realtà fenomenica, costituito del resto da pura luce incorporea, e sostituire a una «imitazione» che si rivelava impossibile, l’espressione autonoma dello spirito, che nella natura non faceva altro che ordinare secondo sue libere leggi un mondo di fenomeni da se stesso liberamente creato. Tale espressione pertanto risultava libera dal dato oggettivo, che si rivelava sempre illusorio, e trovava le sue ragioni di bellezza in nuove leggi non piú tratte oggettivamente dalla natura, ma nate soggettivamente in seno allo spirito. In questa nuova concezione, intorno ad ogni oggetto viene addensato uno spazio infinito, il quale, appunto per questo suo carattere, non è piú lo spazio matematico: ogni pensiero va all’infinito, si perde in mistici abissi, come accade di simili concezioni. L’individuo e l’oggetto singolarmente individuato, che nell’età classica hanno raggiunto una propria evidenza e autonomia, un proprio rilievo plastico in un tempo e in uno spazio determinati e ad essi proporzionati, in modo da staccarsi
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quasi dal cosmo, ora scompaiono immergendosi in una fluida indeterminatezza cosmica. Solo dopo molti secoli torneranno a riemergere agli occhi delle generazioni della Rinascenza come un lontano paese di sogno: «Antichissime acque salgono rinnovate attorno le tue ginocchia, o fanciullo!»1. Ai nostri giorni l’individuo è di nuovo rimesso in discussione; tempo fa un certo Ernst Mach annunziò che l’individuo non si sarebbe potuto salvare e che l’umanità sarebbe divenuta un groviglio di polipi; piú tardi Ricarda Huch, la sottile rievocatrice del romanticismo, pubblicava un meditato libro sulla «spersonalizzazione» dell’Occidente. Aveva dunque ragione il Vico, il geniale formulatore della concezione romantica della storia, di definire il Medioevo come un momento della «storia eterna e ideale dello spirito», come un «ricorso» di una nuova barbarie eroica. Forse ci aspettano fenomeni spirituali che sorprenderanno molto la nostra mentalità di eredi della civiltà rinascimentale: o dobbiamo invece dire che fenomeni di questo genere si sono già verificati? Per ricordarne uno, la latente simmetria delle forme figurative, non individuale ma cosmica, che un grande storico dell’arte, Julius Lange, credette di poter ridurre alla sola «legge della frontalità», fenomeno caratteristico di tutte le arti primitive e dei disegni dei bambini. (Indubbiamente, queste «leggi» vanno trattate con estrema cautela, dopo che certo psicologismo le ha irrigidite attribuendo loro un significato che ne esagera la portata, essenzialmente provvisoria e approssimativa). Un altro esempio potrebbe essere la posizione frontale degli occhi anche nelle figure rappresentate di profilo, caratteristica ostinatamente mantenuta anche in un’arte consapevolmente raffinata come quella egizia. Tutti questi «primitivismi» si trovano già nell’arte della tarda antichità; sono essi che, assieme a forme e a elementi conservati della civiltà antica, conferiscono a
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questo periodo storico quell’aspetto di novità e di vecchiezza allo stesso tempo di cui abbiamo già parlato. Per un osservatore che abbia qualche familiarità con l’arte antica, verrà fatto senza dubbio, di fronte ai manoscritti miniati e ai mosaici dei secoli iv e v di ricordarsi del latino, e non tanto di quello dello stile barocco e cerimonioso degli ultimi retori pagani, quanto piuttosto di quello del grande filosofo cristiano, sant’Agostino, che pure era stato in gioventú uomo di mondo e grande retore. Sono in esso risonanze profonde e nuove dovute principalmente a reminiscenze del linguaggio biblico. Come suonano strane al nostro orecchio le cadenze dell’antichissimo libro dell’Oriente nella lingua di Cicerone! Un sentimento simile deve provare anche uno studioso dei templi antichi che si trovi davanti alle opere d’arte paleocristiane. I filologi classici trovano alquanto buffonesco lo stile del Satyricon di Marciano Capella, che divenne nel Medioevo uno dei libri piú popolari, con quella strana allegoria che funge da cornice (le nozze di Mercurio con la Filologia). Un giudizio non meno severo su quest’opera fu spesso formulato soprattutto in tempi anteriori al nostro. Quelle uniformi e solenni teorie di santi che avanzano verso Cristo, che nelle absidi delle basiliche siede maestoso in trono in rigida frontalità, sembrano veramente inerti e prive di vita. Quelle figure con grandi occhi spalancati fissano lo spettatore e l’infinito dietro di lui. L’armonia delle membra, che era stata la preoccupazione piú alta degli artisti dell’antichità classica, è sparita sotto i panneggi pesanti rigidi e verticali degli sfarzosi costumi. Tuttavia ancora un ricordo dell’«illusionismo» antico si ritrova in queste figure come nelle illustrazioni del manoscritto della Genesi di Vienna che il Wickhoff ha indicato quale fonte di quest’arte paleocristiana.
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La tecnica musiva, fatta per essere osservata di lontano, in quanto gli effetti cromatici si realizzano a pieno solo nell’occhio dello spettatore, ha un posto molto importante in quest’arte. Il rilievo (di cui la Rinascenza farà gran conto) e il modellato plastico dei corpi lentamente si riducono a una formula fissa e convenzionale: nelle linee dure e rigide del contorno e in quelle interne alle figure, miranti anch’esse a un effetto illusionistico, entra qualcosa di nuovo, che finisce coll’annullarle. Un elemento che tende al tipico si insinua nelle linee, nelle superfici, nei volumi, e riduce a formula la forma individuale degli oggetti. Si può parlare di un nuovo «canone» che naturalmente non ha piú nulla a che fare con quello di Policleto, e che non si cura né della bellezza (come è concepita comunemente), né dell’esattezza oggettiva. Recentemente si è tentato di elevare questa differenza tra la concezione figurativa, classica e quella medievale a paradigma e simbolo del contrasto tra due momenti dello sviluppo «eterno e ideale» (per parafrasare ancora una volta la famosa espressione vichiana) del linguaggio figurativo: cioè tra il momento della sensazione oggettiva e quello dell’astrazione. È un tentativo non del tutto errato ma che risente troppo degli schemi dello psicologismo e della filosofia della storia. Lo spostamento dell’interesse figurativo dall’individuale al tipico e la riduzione dell’immagine a ornamento ci riconducono ancora a componenti barbariche e orientali. Prenderemo in esame una doppia serie di documenti molto importanti perché databili con sicurezza e precisione, e che non hanno subito alterazioni; entrambe le serie appartengono alla numismatica (un campo tenuto generalmente in scarsa considerazione dagli storici dell’arte). Si tratta delle monete dell’ultimo secolo dell’impero, e di monete barbariche risalenti agli inizi del periodo ellenistico.
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Il realismo dell’arte romana vive ancora nei ritratti impressi nelle monete del secolo iii; nelle serie di ritratti degli imperatori-soldati, esso è accentuato quasi fino alla caricatura. Come la maggior parte degli aspetti della civiltà antica, esso culmina e finisce con Diocleziano; il suo mezzo di espressione piú adatto, lo trova in una linea energica, spesso brutalmente dura e rigida (e non certo perché l’arte di coniare monete si fosse imbarbarita). Anche i busti di pietra (che diventano sempre piú rari) presentano le stesse caratteristiche. Ma con l’ascesa al trono della dinastia dei Costantiniani, originari della Siria, si verifica un grande mutamento nell’arte del ritratto. Costantino, cui venne dato il soprannome di Grande, appare nei ritratti eseguiti al suo tempo un personaggio raffinato, dal portamento aristocratico, senza barba, stranamente elegante; anche qui l’effetto figurativo è affidato quasi unicamente a una linea che si snoda con sobria eleganza. I tratti caratteristici della fisionomia sono ancora presenti, ma come guardati attraverso un velo sottile. In seguito i ritratti diventeranno espressione di un tipo ideale, attraverso uno sviluppo che ne ricorda stranamente un altro verificatosi in un’epoca storica precedente. Nel periodo storico dei Costantiniani, che ricorda assai da vicino la fase dell’ellenismo e della orientalizzazione della civiltà greca, pur rappresentando un progresso storico rispetto a quella, in quanto cronologicamente posteriore, si ebbe un vero culto per Alessandro il Grande; e le meravigliose monete raffiguranti Costantino che rivolge lo sguardo al cielo (riflesso della nuova trascendenza) hanno il loro precedente «esterno» nelle monete del tempo di Alessandro. V’è di piú; i ritratti su monete dei Diadochi, i successori di Alessandro, raffigurano ormai soltanto il tipo ideale del sovrano, nel quale i tratti fisionomici caratteristici sono spariti; un fenomeno analogo si verifica nei ritratti dei successori di Costantino. Il dispera-
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to tentativo di ritorno all’antico compiuto da Giuliano l’Apostata sembra interrompere questa linea di sviluppo; ma se osserviamo i ritratti conservatici di questo imperatore, si deve dire che la sua fluente barba da filosofo antico non ha piú nulla di fisionomico, ed è diventata una specie di maschera. Le monete della tarda antichità e, poi, quelle bizantine mostrano sempre lo stesso schema di pupazzo in trono, ripetuto con infinita monotonia. Si potrebbe dire, se l’espressione non potesse essere fraintesa, che non c’è piú il ritratto di un individuo, ma di un concetto. Ogni ritratto porta in sé, per vizio d’origine, qualcosa di ambiguo: è nello stesso tempo ritratto di una persona ed espressione di un sentimento; ma qui abbiamo già ritratti «realistici» in senso medievale, non ritratti nel senso che diamo noi alla parola, o abbiamo dato fino a ieri, cioè non ritratti dell’individuale ma dell’idea, dell’universale; e con ciò siamo già entrati nel Medioevo. È vero che nell’impero d’Oriente, dove si ebbe una cospicua civiltà di palazzo profana, durerà ancora per qualche tempo l’uso di ritrarre il sovrano a piedi e a cavallo, con quella accentuazione dei tratti fisionomici, che è caratteristica dei ritratti del basso impero (sappiamo che esistettero simili ritratti di Teodorico e di Giustiniano). Ma quest’uso finì – vedi caso – proprio quando il vecchio latino cessò di essere la lingua ufficiale dell’impero d’Oriente e i Romani diventarono Rhomaei. Il ritratto pubblico, fosse pure quello del Cesare cristiano, era affatto incompatibile con la mentalità medievale, che scorgeva in esso qualcosa di idolatrico. Sappiamo che Carlo Magno portò con sé ad Aquisgrana un ritratto di Teodorico a cavallo, e lo fece collocare davanti al suo palazzo, invece di metterci il proprio. Ma fu fatto subito togliere dai suoi successori. Questa profonda avversione per l’individuale visto come cosa priva di valore, e peggio peccaminosa, è
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profondamente radicata già nell’ethos della tarda antichità; ed è comprensibile che essa fosse tanto piú forte contro quella forma artistica in cui l’individuale trova la sua massima accentuazione, cioè il contrefait (l’espressione francese è qui molto piú significativa del tedesco Bildniss o dell’italiano ritratto). Anche per Platone l’individuale era nient’altro che ombra rispetto all’Idea eterna; col neoplatonismo questa concezione ritorna rafforzata da un sostrato di pensiero mistico-religioso in quanto con esso viene ristabilita l’unione di religione e filosofia, di quella filosofia cioè che molti secoli prima s’era staccata dalla religione affermandosi come scienza autonoma. Il fatto invece che nella matura arte ellenica non esista ciò che noi chiamiamo «ritratto» si spiega con ragioni d’altro genere, da ricercare nell’ethos politico dei Greci. Del resto l’idealismo platonico culmina in una concezione dello stato di tipo classico, non già nella Civitas Dei agostiniana. Invece nella tarda antichità si tratta ormai della rinuncia cosciente a qualcosa che già esisteva, a un elemento che era diventato parte strutturale della civiltà. Che si trattasse di una rinuncia e di un annichilimento cosciente, lo dimostra il fatto che, secondo quanto racconta un biografo, si dovette ricorrere all’astuzia per avere un ritratto di Plotino. Bisogna per forza pensare che dietro a questa rinuncia all’io ci sia un nuovo profondo sentimento mistico. Le belle parole dedicate dal Wilamowitz al grande filosofo del secolo iii, che si leggono come una commovente trenodia cantata sulle rovine dell’antichità, mettono in rilievo come l’autore scompaia interamente dietro alla sua opera, e come in lui, per il quale «il mondo e la vita sono in fondo del tutto irrilevanti, casuali, e perfino molesti», paragonabili al corpo, in cui l’anima e prigioniera, sia scomparsa ogni concretezza e corposità di linguaggio. «Come sembra
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poco greca quest’opera, nella quale v’è come l’estrema luce della casta Charis che s’allontana, e appena un ricordo dell’abbandono puro e semplice all’oggetto, che insegnò la prosa scientifica agli Joni». Queste parole del Wilamowitz si possono applicare altrettanto bene anche all’arte della tarda antichità. Nella civiltà islamica questo rifiuto del ritratto è ancora piú totale e incondizionato: la fede maomettana insegna che nell’ultimo giorno il ritratto esigerà l’anima dell’artista che lo eseguì. La seconda serie dei documenti che vogliamo esaminare appartiene, come già si è detto, all’arte primitiva. I popoli che abitavano la regione balcanica a nord della Grecia si resero conto assai presto del valore e dell’importanza del denaro coniato, e imitarono le monete dei loro piú civili vicini. Si tratta di un’imitazione di particolare natura. Per anticipare diremo che in queste monete barbariche si può rintracciare parte di quello spirito e di quell’atteggiamento che il Medioevo gotico assumerà nei confronti della «natura» e del «mondo classico». Si tratta per lo più di monete d’uso commerciale, che avevano corso in un’area vastissima (press’a poco come il tallero di Maria Teresa nel Levante), di monete di Filippo II di Macedonia o anche di monete consolari romane. Le figure impresse su queste monete (quadrighe, cavalieri, teste di dèi), non riproducono gli oggetti nella loro forma organica individuale, ma solo attraverso semplificazioni estreme, ornamentali, che a noi sembrano di una sommarietà puerile. Non a torto è stata richiamata in proposito la miniatura irlandese dell’alto Medioevo; il paragone sarebbe tanto piú adatto qualora si trattasse effettivamente di documenti celtici, come è stato supposto. Ma non si può avvicinare le figure di queste monete ai disegni infantili, giacché la sommarietà di queste figure non è dovuta a inesperienza tecnica; è
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anzi risaputo che tutti questi barbari, Celti compresi, erano abilissimi in fatto di tecnica e particolarmente esperti nel lavorare l’oro. Uno sguardo ai documenti migliori dell’arte irlandese della miniatura può farci persuasi della sua perfezione: nel suo sicuro equilibrio tra sentimento ed espressione, essa è molto superiore a quest’arte barbarica con la quale ha pure innegabili affinità. In quest’arte, naturalmente, il concetto di natura è molto diverso da quello dell’arte classica o rinascimentale. Ci viene in mente un curioso passo di uno storico ellenistico in cui si dice che ai Galati devono essere sembrate assai ridicole le immagini greche degli dèi. Questo scrittore non deve aver pensato soltanto al «contenuto», e noi possiamo supporre che ai Greci succedesse esattamente il contrario. Uno scienziato, il Verworn, che ha scritto un piccolo lavoro su questi aspetti dell’arte primitiva, anche vista in rapporto con l’arte contemporanea, parla di una forma «fisioplastica» d’arte, contrapposta a una forma «ideoplastica». Secondo il Verworn, nella forma «ideoplastica» non vi sarebbero immagini di oggetti realmente osservati, ma idee di rappresentazioni che nascono dall’attività associativa della mente. Ne risulta quindi una forma d’arte ornamentale, perché opera una scelta di elementi formali puri, cosicché anche la «figura» può essere ridotta a «ornamento», mediante una copia di essa ripetuta secondo schemi fissi; o una forma d’arte schematizzante, perché accentua gli elementi essenziali e sopprime quelli che sembrano secondari (ciò che è fondamento della caricatura); infine fantastica perché unisce tra loro elementi dell’osservazione sensibile che non hanno tra loro nessuna connessione naturale, come succede nel sogno. Queste osservazioni sono giuste (anche se risentono un po’ troppo di psicologismo) e aiutano molto a capire l’elemento barbarico nell’arte del primo Medioevo. Si tratta qui degli elementi primi di
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ogni «linguaggio che si esprime con forme visibili» (Conze). Ma non dobbiamo pensare di fronte a queste forme «astratte» dell’arte barbarica, che esse siano forme geometriche, espressioni di concetti come per noi: l’«astratto» è tanto poco presente alla coscienza del primitivo, quanto a quella del bourgeois gentilhomme di Molière la consapevolezza della prosa che egli parla. Si tratta invece di immagini sommarie di oggetti reali; un triangolo disegnato da un selvaggio, per esempio, può rappresentare un perizoma, o qualcosa di simile; ma, data l’estrema semplificazione della figura, il suo significato può cambiare rapidamente, come cambiano le immagini nel sogno e nella veglia che precede il sonno. Per questo è cosí interessante per noi il confronto tra lo sviluppo delle arti figurative e quello della musica, in cui contenuto e forma non si possono dividere nemmeno attraverso artifici voluti. Come nella musica la parola (che nell’antichità veniva ancor meglio sollevata nella sua definita plasticità dal canto) gioca in antitesi con gli elementi originari del suono, cosí nelle arti figurative la figura gioca in antitesi con ciò che noi chiamiamo «forma ornamentale» e che siamo abituati a considerare come un’aggiunta estranea, in omaggio a una teoria, per fortuna ora tramontata, che considerava la bellezza come inerente a determinate forme. Queste forme ornamentali sono appunto gli elementi primi di ogni rappresentazione figurativa, che poi la geometria ha razionalmente fissato in formule. Nella «figura» l’osservazione sensibile ha il ruolo di correttivo e di sostegno alla fantasia, mentre nella forma «ornamentale» la fantasia dell’artista è sostenuta da un elemento piú spirituale, piú alto, e non è vincolata da alcun oggetto naturale. Ma tutte queste categorie psicologiche vanno trattate con estrema precauzione. Si può attribuire una certa superiorità in arte (confermata del resto anche dalla sto-
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ria) all’elemento razionale, che culmina nella scienza empirica, rispetto all’elemento fantastico, che corre sempre il pericolo di smarrirsi nell’infinito, nell’indeterminato e nel mistico. D’altra parte un eccesso di razionalità può condurre a un irrigidimento nel finito, a una copia della natura, priva di ogni vita d’arte. Il fatto che già Lattanzio, uno dei primi Padri della Chiesa, si dichiari irriducibile avversario di ogni scienza della natura, presuppone uno sfondo di cultura piú profondo che non si sospetti. Ma c’è un altro fatto che va considerato: mentre la parola dai contorni saldi, o la figura individuale hanno un significato in esse immanente, il suono «assoluto» e la forma «ornamentale» hanno un significato che li trascende. L’antico dualismo tra forma e contenuto poteva tornare in due modi a proposito di queste forme d’arte; esse potevano venire considerate: come espressioni di pura tecnica, oziosi giochi di forme, rapporti di suoni e toni cromatici; oppure come mezzi per risvegliare negli spettatori sentimenti o pensieri. La polarità tra «figura» e «scrittura», meglio che quella tra «figura» e «ornamento», può essere elevata a simbolo dell’opposizione tra civiltà classica e civiltà medievale. Si è già detto qualcosa a proposito del mutamento della «figura» in «scrittura», cioè del processo per cui si passa dalla rappresentazione individuale di un oggetto alla rappresentazione di forme simboliche, che hanno cioè un significato che le trascende. Tutto il Medioevo è allegorico e trascendente; ma l’allegoria medievale è assolutamente diversa da quella dell’antichità o della Rinascenza, che è qualcosa di esteriore e di cerebrale che si sovrappone all’immagine ma non si fonde con essa. Ogni forma individuale è se stessa solo al di là delle apparenze sensibili, è in sé e nei suoi effetti profondamente simbolica: è questo il punto in cui, conformemente al «realismo» medievale, la «calligrafia», la
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forma in sé, nella sua vita originaria e singolare, si unisce alla «pittografia», la quale anch’essa supera e sorpassa ogni forma singolare. L’ornamento classico, cosí sobrio e organico, si muta nelle confuse forme ornamentali dei barbari del Nord-ovest europeo, oppure negli enigmatici, indefiniti geroglifici orientali, che ammaliano e fanno smarrire lo spettatore nella loro labirintica vicenda (si pensi per esempio ai tappeti orientali). Anche la scrittura diventa ornamentale. La meravigliosa scrittura araba (che la Rinascenza, come è noto, usò come mero ornamento) e molte tra le scritture «nazionali» del primo Medioevo sono esempi di questo mutamento. Senza dubbio, chi studia l’arte medievale ha l’esatta impressione che in essa la parola, il contenuto, tenda a soverchiare la forma (ricordiamo a questo proposito la grande importanza che aveva il titulus, cioè la scritta esplicativa che veniva posta accanto alle immagini). Di ciò esistono anche documenti teorici: san Girolamo aveva ammonito che non fosse la voce del cantore ma le parole del canto a commuovere gli ascoltatori; e le Con fessioni di sant’Agostino sono documento della commovente lotta che si svolse in una grande anima e delle terribili crisi attraverso le quali il nuovo spirito medievale si liberò faticosamente dal grembo della civiltà che l’aveva generato. Può sembrare effettivamente che il contenuto soverchi la forma: ma non bisogna lasciarsi influenzare dalle teorie medievali sull’arte, nettamente moralistiche e intellettualistiche. È stato detto che Dante avrebbe condannato alla piú profonda delle bolge del suo Inferno quei commentatori moderni che si sforzano di caratterizzare solo il tono della sua poesia. Non si tratta di un’affermazione semplicemente scherzosa: Dante fu veramente un grande poeta suo malgrado. Per molto tempo si è pensato al Medioevo e alla tarda antichità come epoche ricche di fermenti spirituali, ma di
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assoluta aberrazione in fatto d’arte. Ma come potrebbero mancare nel Medioevo espressioni dell’attività aurorale dello spirito, quella che presuppone e condiziona tutte le altre? Anche il Medioevo ebbe un’arte sua, la quale raggiunse il suo apice in quel linguaggio artistico che ancor oggi noi chiamiamo con quel nome di «gotico», che un tempo suonava a dispregio.
«Uralte Wasser steigen verjüngt um deine Hüften, Kind!» (eduard mörike) [N. d. R.]. 1
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Capitolo quinto
Carattere e sviluppo del linguaggio artistico medievale
Quanto s’è detto fin qui voleva soltanto individuare e definire il terreno su cui sorse l’imponente «basilica» dell’arte medievale e fornire un orientamento preliminare in essa. Ora entreremo nel «portico» di questa basilica, i cui dipinti ci daranno un’idea di come crebbe e si sviluppò. Già si è detto nella prefazione che nostro proposito era semplicemente di dare un avvio per imparare a leggere l’opera d’arte, di fornire un’introduzione alla grammatica del linguaggio artistico medievale. E per questo abbiamo usato a ragion veduta l’immagine della basilica, giacché lo sviluppo dell’architettura medievale ci può fornire l’insegnamento preliminare piú adatto per capire il linguaggio artistico del Medioevo; essa può venire senz’altro elevata a paradigma dello sviluppo dell’arte medievale. Si presenta infatti come il «tipo d’arte» (per usare qui un concetto scolastico altrove rifiutato) piú facilmente accessibile ai meno preparati, e può essere considerata come una vera e propria grammatica, poiché in essa le individualità creatrici sembrano (ma sembrano soltanto) non esistere o almeno essersi ritirate in secondo piano, sicché risulta piú facile metterne a nudo in forma logico-tecnica la struttura interna. Anche qui noi siamo subito ricondotti al confronto con la lingua (e si tratta di qualcosa di piú che una sem-
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plice immagine, come già abbiamo mostrato), poiché il termine roman (romanico), il piú fortunato della moderna storia dell’arte, fu creato per designare le nuove lingue nazionali derivate dal latino volgare. La designazione del primo grande periodo architettonico del Medioevo come stile «romanico» sostituí quell’altra erronea di stile «bizantino». Noi dobbiamo tenere però sempre presente che quando si parla di stili si compie una delle solite astrazioni motivate da ragioni didattiche e grammaticali: il tedesco Stil – come l’italiano maniera – significa originariamente «stile individuale». Se abbiamo idee chiare su questo punto, possiamo conservare senz’altro questa designazione «stile romanico», che del resto è ormai usuale da lungo tempo. Essa deriva, pare, dall’osservazione (fatta per la prima volta da archeologi francesi) che nell’architettura del primo Medioevo si notavano gli stessi fenomeni che nello sviluppo delle lingue romanze dal latino volgare delle province romane: tali lingue si diversificavano per flessioni, sfumature e colorito dovuti alle antiche basi etniche locali, che erano state coperte solo in parte da un sottile strato di cultura latina. Questi studiosi francesi notarono nella nuova architettura medievale l’intervento di elementi barbarici, i quali tuttavia non erano in grado di rompere l’antica struttura latina: proprio lo stesso fenomeno che si era verificato nella formazione dei dialetti, soprattutto di quelli italiani. Dobbiamo guardarci dal formulare teorie razziali, che restano sempre unilaterali e non si possono mai dimostrare con sicurezza: accanto agli elementi etnici, vanno comunque considerati nel nostro caso gli elementi politico-sociali (soprattutto la struttura amministrativa), i quali, pur senza voler concedere ad anguste interpretazioni materialistiche, produssero innegabilmente notevoli effetti. Il fenomeno qui riguarda non sol-
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tanto l’area linguistica romanza ma comprende anche quella germanica. L’opinione che la «lingua letteraria» che alla fine del Medioevo riuscí a diventare il linguaggio artistico comune a tutta l’Europa, cioè lo stile «gotico» od «ogivale», sia di origine francese, e non derivi invece da un ipotetico «stile germanico», la si deve all’archeologia tedesca, e depone a favore dell’imparzialità e della mancanza di pregiudizi della cultura tedesca, poiché già i piú vecchi storici dell’arte tedeschi avevano riconosciuto questo fatto e avevano rinunciato a quella denominazione, che derivava dal romanticismo tedesco. Quando il cristianesimo, all’inizio del secolo iv, trionfò sulle forme di religione ad esso simili (quali i culti mitriaci), non poté non servirsi, nei limiti del possibile, di forme tradizionali, in quanto esso venne a innestarsi sul tronco dell’antica cultura latina. Esso ha conservato sino ad oggi nelle forme del suo culto la lingua, la musica, e persino i sontuosi costumi della tarda antichità. Tra queste forme tradizionali, che il cristianesimo accolse e conservò, c’è naturalmente anche il linguaggio figurativo dell’arte romana. Ma mentre l’architettura profana del primo Medioevo, poté, come già si è detto, crescere immediatamente sul ceppo di quella della tarda antichità, non ci poté essere una sutura altrettanto immediata tra l’architettura della nuova religione e quella dell’antico paganesimo, sia per ragioni religiose, sia per ragioni tecniche collegate a queste. Per esempio, nella nuova comunità religiosa c’era una classe di sacerdoti che si perfezionava sempre piú e prendeva il posto degli antichi maestri di retorica e di filosofia. Ma anche nel settore dell’architettura religiosa non poteva non esserci qualche legame con la tradizione. L’architettura antica si offriva alla nuova comunità cristiana in due forme sostanzialmente diverse: c’erano le case dei vivi, con le loro lunghe fughe di stanze, e i
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monumenti dei morti (per solito a volta), a scopo celebrativo o per la conservazione delle ceneri. Il cristianesimo adattò ai propri usi e alle proprie esigenze sia lo schema della casa per lungo, rettangolare, implicitamente basilicale, si potrebbe dire, che le costruzioni mortuarie, all’ingrosso a rotonda, comunque a pianta centrale: l’una e l’altra ebbero largo impiego nelle diverse situazioni della vita pubblica e privata. Per la storia del linguaggio artistico medievale sono particolarmente interessanti le costruzioni religiose: fatto assai significativo perché rivela il carattere decisamente trascendente della nuova civiltà. Anche qui Oriente e Occidente, mondo latino e mondo greco, mostrano notevoli differenze. L’Occidente smise assai presto l’uso delle costruzioni a pianta centrale, e sviluppò invece la costruzione a pianta rettangolare. L’Oriente per contro si servì della costruzione a sistema centrale, con l’antichissimo motivo della cupola, mostrando un conservatorismo singolarmente rigido, specialmente dopo che lo sviluppo architettonico dell’Asia Minore, ricco di promesse, fu interrotto e represso dall’irrompere degli Arabi. L’Italia, nel suo tradizionale isolamento, costituí una specie di ponte tra le due civiltà; fuse insieme i due tipi di costruzione, tenendosi sempre in posizione autonoma, finché essi non ridiventarono abituali a tutto l’Occidente, con la diffusione del nuovo «linguaggio comune» del barocco. Dopo lo scisma e la guerra dell’iconoclastia, il carattere piú spiccato della civiltà orientale fu una grandiosa fusione di potere spirituale e temporale. In Occidente invece i diversi campi della vita conservarono una loro variopinta autonomia: al rinnovamento dell’antico impero dei Cesari per opera del papato, seguí la grande lotta tra potere spirituale e temporale, mentre agiva incessantemente un’attività sotterranea che condusse poi alla
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fondazione dei nuovi stati nazionali. Mentre in Oriente la koiné si affermò definitivamente, e venne anzi tentato un ritorno artificiale al greco antico (tentativo rimasto in Italia a mezza strada), in Occidente il latino volgare cadde assai presto in disuso, e si trasformò, per l’impulso di elementi attivi sotto la superficie, nelle lingue romanze nazionali, di fronte alle quali passarono in secondo piano le lingue germaniche (e soprattutto quelle celtiche, di antica civiltà). Queste lingue romanze non hanno assolutamente nulla in comune con le lingue «barbariche» (e non solo nel senso degli antichi) dell’Oriente cristiano. La Provenza occupava un posto linguistico a sé già ai tempi dell’impero. Anche il latino delle Gallie, della Spagna e dell’Africa aveva particolari sfumature cromatiche, e i Romani del primo secolo sentivano la patavinitas di Tito Livio. Numerose epigrafi di quest’epoca permettono di riconoscere elementi dialettali nel latino. Nel campo dell’arte figurativa, questi elementi dialettali sono stati studiati con esitazione e del tutto inadeguatamente. Anche gli influssi dovuti a elementi propriamente stranieri, germanici o arabi, furono manifestamente molto piú attivi ed efficaci di quanto non siano stati gli influssi slavo-turanici (popoli dotati di civiltà assai inferiore) in Oriente. Il fondo che potremmo chiamare di «latino volgare» nell’architettura medievale dell’Occidente europeo (esclusa l’Italia) è costituito dalla basilica paleocristiana, con la sua caratteristica struttura: costruzione rettangolare e allungata, con una navata centrale piú alta di quelle laterali, talvolta tagliata da un transetto, con un’abside che sbocca in esso, e una torre campanaria indipendente dal resto dell’edificio. Si tratta di un tipo di costruzione che andò soggetto a diverse «coniugazioni», ma che mantenne caratteristiche costanti e marcate. La splendida costruzione, con le sue ritmiche file di colonne, i suoi mosaici, le cortine che dividevano in cadenza
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gli spazi, risolta quasi interamente nell’interno, fragile nella sua struttura statica (e quindi assai diversa dalle costruzioni romane alle quali il sistema di volte e di muri conferiva una bronzea saldezza) può essere paragonata per la sua raffinatezza e il suo fasto al latino retorico e fiorito dell’ultimo periodo; e non tanto al latino degli ultimi scrittori pagani quanto a quello dei primi cristiani, soprattutto a quello di sant’Agostino, cosí pieno di cadenze bibliche. Vennero poi i secoli bui del Medioevo, pieni di decadenza e di decomposizione, nei quali tuttavia maturarono, sia pure attraverso una torbida fermentazione, le nuove forme del basso Medioevo: in questo periodo troviamo il latino veramente «barbaro» (o auroralmente romanzo) di un Gregorio Magno o di un Gregorio di Tours; o il latino che veniva ancora letto e scritto faticosamente nei chiostri e nelle cancellerie del Nord. Nel campo della lingua si ebbe la formazione dei dialetti, con l’erompere alla superficie, attraverso il sottile strato del latino volgare, degli elementi indigeni; lingue provinciali, cui l’introduzione di nuovi vocaboli, spesso venuti da lontano, conferiva un colorito particolare. Analogamente, per gli inizi del romanico si può parlare di un’«architettura dialettale», la quale di fronte alla grandiosa uniformità dell’architettura orientale cristiana (in cui l’elemento popolare, come già si è detto, non poteva forzare l’imponente strato culturale o lo poteva solo momentaneamente) ha un aspetto variopinto e quasi caotico. Il grande compito cui lavorò il primo Medioevo fu lo sviluppo delle basiliche paleocristiane, il perfezionamento delle loro piante, della loro saldezza statica (con l’introduzione della volta), il problema dei supporti, la divisione ritmica dello spazio interno, e l’abbellimento e la differenziazione del loro aspetto esterno (che comin-
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ciò ad essere curato prima che altrove nell’Asia anteriore cristiana). La fonetica, il lessico e la sintassi seguirono nuove vie; i cambiamenti di suono e di significato condussero la nuova lingua sempre piú lontano dall’antica base latina. Va ripetuto ancora una volta che non si tratta di un ingegnoso raffronto fra lingua e arti figurative: la nuova visione del mondo prese corpo anche nel fenomeno linguistico. Il Vossler, in un suo studio sopra «le nuove forme di pensiero nel latino volgare» (studio condotto su basi filosofiche rigorose), ha mostrato come queste siano sufficienti a spiegare la sparizione di determinate forme linguistiche in uso nel latino classico e che servivano all’espressione di determinati atteggiamenti psicologici (quali il passivo, il futuro, il neutro e molte altre), senza ricorrere ai cosiddetti fattori della storia della cultura. Nella nuova lingua viene meno l’interesse per colui che parla: si verifica invece un generale convergere dell’interesse verso il trascendente, il simbolico, il sovraindividuale, l’impersonale, il tipico, insomma verso quell’ideale, astratto, al quale Platone per primo aveva educato gli uomini. È questa la tendenza che caratterizza il passaggio dal latino classico alle lingue romanze, attraverso la mediazione del latino volgare. Il tentativo di introdurre, in modo piú o meno esteriore, nella Rinascenza carolingia forme architettoniche meridionali, e le ripercussioni che esso ebbe al tempo degli Ottoni, hanno qualcosa di un romantico sogno di restaurazione, simile a quello della renovatio imperii, e restano un episodio isolato, come lo studio che si fece in questo periodo di Vitruvio. Ma le prime manifestazioni del romanico in formazione appaiono proprio nelle grandi fabbriche conventuali, le sedi dei praeceptores Germaniae. Ciò che ci può essere di individuale nelle costruzioni in questo periodo va cercato in caratteri d’ordine generale, come ad esem-
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pio, nelle differenze esistenti tra provincia e provincia, poiché determinati problemi, architettonici diventano il Leitmotiv di determinate zone. Il sistema «quantitativo» delle antiche basiliche, con le loro rigide fughe di colonne, dà inizio a un sistema «accentuativo». Abbiamo già paragonato l’alternanza di colonne e di pilastri (che entra in uso in questo periodo) alla rima, che in tempi piú antichi si incontrava soltanto negli strati bassi della poesia popolare, ma che venne già usata dall’innografia del cristianesimo primitivo, al quale conferí un carattere spiccatamente musicale. Il nuovo motivo dell’alternanza dei supporti, in connessione con la nuova tecnica delle coperture a volta, conduce a un nuovo ritmo strettamente legato, a serrate formazioni «a gruppi», a uno sviluppo organico, che da una parte è un arricchimento e dall’altra è un impoverimento. Cade in quest’epoca il periodo d’oro del romanico tedesco: ad onta di ogni cautela scientifica non si può non ritrovare, nelle basiliche dal tetto piatto, poggianti su pesanti supporti, della bassa Sassonia (regione allora da poco guadagnata alla cultura cristiana meridionale) tracce del poderoso e robusto elemento popolare; mentre nella Franconia renana, in cui la tradizione, assai meno statica e basata sul fondo culturale dell’antica civiltà romana, era sempre aperta agli influssi dell’Occidente, l’architettura, impadronitasi della tecnica della costruzione «a volta» del Sud europeo, produsse, con le sue imponenti costruzioni religiose, quanto di più notevole e originale abbia dato la Germania in questo settore delle arti figurative. I meravigliosi edifici di questa pittoresca architettura tedesca, a grandi corpi architettonici pausati e conclusi, con i loro doppi cori e i loro sistemi di torri legate organicamente tra di loro, e non ultima la grande torre, eretta sul punto di intersezione delle navate con il transetto (simile alle cupole meridio-
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nali, e tuttavia profondamente diversa da esse), sono stati non a torto paragonati alla forma musicale della «sonata» (nella musica il carattere tedesco si è espresso appieno ed ha avuto riconoscimento universale). Anche l’architettura della Francia occidentale ebbe un carattere spiccatamente dialettale e provinciale. La Linguadoca, l’antica Aquitania, e la «Provincia» romana ebbero uno sviluppo assai diverso da quello della patria della langue d’oïl. In esse fu notevole l’uso della volta «a botte», motivo caratteristico dell’antica architettura romana e che costituí una specie di ponte architettonico tra il Sud della Francia e l’Italia, la patria della lingua latina, ad esso anche geograficamente vicina; del resto uno stretto legame spirituale tra i due paesi non è mai mancato. Le province del Nord della Francia, Alvernia, Champagne, Normandia, Borgogna ebbero anch’esse uno sviluppo autonomo. Quest’ultima, in cui sorsero i grandi monasteri di Cluny e Citeaux, assai notevoli per l’influsso che esercitarono a distanza su tutto l’Occidente, seguí uno sviluppo analogo a quello per cui l’Ile de France giunse alla formazione del linguaggio «letterario», e a preparare in pari tempo le basi per l’accettazione di esso da parte di tutto l’Occidente. L’Ile de France fu infatti la patria di quel dialetto architettonico, la culla di quell’opus franci genum, che fu l’espressione ultima e piú alta dell’anima medievale, destinato ad avere larghissima diffusione in tutta l’Europa, e che fu piú tardi denominato «gotico». Quivi erano i possedimenti ereditari della monarchia francese; e dalla capitale di questa regione, Parigi, si diramò quella rigida politica di accentramento che ha fatto della Francia, a differenza della Germania e dell’Italia, e malgrado le tremende lotte sostenute contro l’Inghilterra, una nazione unitaria, in cui non c’è che la città capitale e la provincia. Di fronte alla cultura pari-
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gina, anche l’antica ed evoluta civiltà delle province meridionali è divenuta quasi un patois. La salda organizzazione politica della Francia ha senza dubbio contribuito a far sí che lo stile gotico, prodotto della superiorità spirituale dell’Ile de France su tutte le altre regioni della Francia, diventasse uno stile universale, e che il dialetto parigino diventasse la lingua letteraria del paese piú grande dell’Occidente europeo, come, in condizioni analoghe e tuttavia diverse, avvenne per il toscano in Italia, per il castigliano in Spagna, e per l’alto tedesco, la lingua della cancelleria imperiale del Lussemburgo, in Germania. L’archeologia francese si è periodicamente sforzata, con zelo e fede commoventi, di mostrare le radici celtiche e galliche del linguaggio architettonico gotico. Tracce di queste radici esistono senza dubbio, come esistono anche nella lingua parlata, ma assai poco chiare; mentre è chiaramente visibile l’arricchimento del patrimonio lessicale dovuto all’elemento germano-franco. Benché la Francia sia in fondo assai poco una nazione latina, il suo linguaggio (in senso lato) è, nonostante la sua patina, senza dubbio romanzo. La sua struttura interna, che deriva dal latino volgare, è rimasta intatta. E per quanto la cattedrale gotica e la basilica paleocristiana sembrino essere molto diverse una dall’altra, esse stanno tuttavia tra loro nello stesso rapporto che intercorre tra la parola francese eau e quella latina (e italiana!) aqua, che somiglia pochissimo alla prima anche nel suo aspetto grafico. Nonostante l’origine, linguaggio architettonico e lingua parlata recano l’impronta della spiritualità del popolo dal quale si sono sviluppati come qualcosa di assolutamente nuovo. Il positivismo del secolo scorso ha tentato di caratterizzare lo stile gotico basandosi esclusivamente sulle soluzioni tecniche da esso adottate, definendolo il tentativo piú rigoroso e riuscito, tra gli altri del genere, di
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adattare la volta allo schema essenzialmente longitudinale delle basiliche; di ovviare alla poderosa spinta laterale della navata centrale facendola scaricare sui contrafforti; di risolvere con matematica certezza, attraverso l’arco a sesto acuto, tutti i nessi e i raccordi alti; di portare a formule estreme il sistema «a gruppi» del romanico; infine, di rivelare all’esterno l’ossatura della costruzione, che nel gotico è eseguita con esasperato rigore logico-tecnico, ed è il solo elemento che abbia una funzione strutturale, in quanto la parete è divenuta ormai un puro riempitivo, che viene forato con grandi finestre ornamentali. Tutte queste novità costruttive sono applicate dal gotico con audacia sorprendente e spregiudicata. Se questa maniera puramente morfologica di considerare l’architettura dimentica l’elemento spirituale che è in essa, quell’altra, derivante dalla «filosofia della storia» del romanticismo, ha senza dubbio sopravvalutato, in maniera altrettanto unilaterale, questo elemento; difatti, nel verticalismo delle torri, dei mille pinnacoli, dei sottili archi a sesto acuto delle cattedrali gotiche, essa vedeva soltanto la piú alta espressione della trascendenza, del Sursum corda medievali. Ma non senza ragione i romantici hanno paragonato l’estremo rigore matematico di queste costruzioni al sistema teologico della filosofia scolastica e alla contrappuntistica del maturo Medioevo. In entrambe queste manifestazioni, che ebbero in Parigi il loro centro di maggior fioritura, trovò tuttavia la sua piú alta espressione la spiritualità gallo-franca. È stato giustamente osservato che la filosofia rigidamente matematica di Cartesio o la rigida poetica intellettualistica di Boileau hanno il loro antecedente in questo spirito. In realtà, lo spirito francese presenta una singolare unione di razionalità matematica e di gelida fantasia «celtica», in nessun luogo visibile meglio che nell’ester-
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no delle absidi del puro stile gotico: unione che ha trovato in Victor Hugo il suo descrittore piú congeniale. Questo tipo intellettualistico di indagine storiografica di cui si parlava (tornato di moda anche in tempi recentissimi, ma filosoficamente assai poco scaltrito o addirittura dilettantistico rispetto all’antica visione romantica), contribuí senza dubbio a chiarire il clima spirituale in cui nacquero queste opere. Questo non è certo un risultato trascurabile; ma non soddisfa il critico intelligente piú del metodo positivistico, il quale almeno resta aderente all’opera d’arte, sia pure nella sua piú grossolana esteriorità tecnica. Il «contenuto» può venire considerato soltanto come «documento» per una generalizzante «storia della cultura»; ma opere di minore valore artistico possono servire a questo scopo altrettanto e meglio degli autentici capolavori, perché in esse generalmente si trovano assai piú marcate le caratteristiche comuni allo stile di un’opera. L’antico dualismo tra forma e contenuto non è stato ancora definitivamente annullato. In teoria si predica, è vero, la loro inscindibile unità, ma solo raramente si fa della storia dell’arte tenendo conto dell’autonomia e dell’immanenza dell’espressione artistica. Questo punto andava ribadito dal momento che qui si vuole fare di proposito storia del linguaggio artistico, non storia della cultura. Se si fa della storia dell’arte mettendosi nella posizione dei romantici, si rischia di scambiare l’opera d’arte con la spiritualità in cui essa è nata, e di approvarla o condannarla solo per ragioni sentimentali. Il gotico francese dal romanticismo in poi ha trovato ora la piú entusiastica ammirazione ora la piú violenta negazione, dovute sempre a motivi sentimentali. Tutti sanno, ad esempio, come il Goethe, dopo un’esaltazione giovanile per il gotico (ingenua certamente e inficiata da patriottismo romantico, ma abbastanza vicina alla giusta valu-
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tazione) e dopo il rifiuto di esso negli anni della sua razionale maturità, sia giunto a una posizione storica nel senso piú alto. È nota anche l’oscillazione dei giudizi del Burckhardt a questo riguardo. Nel Burckhardt c’era un intimo contrasto tra le convinzioni teoriche e la individualissima sensibilità per lo stile, cosicché gli succedeva spesso di formulare giudizi in opposizione a quello che sentiva. Per questa ragione alcune delle sue asserzioni, soprattutto quelle riguardanti il gotico italiano, hanno qualcosa di ambiguo ed esitante. Persino uno spirito squisitamente educato al gusto artistico e filosoficamente preparato come Konrad Fiedler poté arrivare al punto di dolersi, di fronte al fenomeno della penetrazione dell’architettura gotica, del fatto che il romanico tedesco, cui egli era profondamente sensibile, fosse stato soppiantato da quel rigido stile straniero. L’osservazione era in se stessa storicamente esatta, anche se viziata di eccessivo tecnicismo da un lato e di sentimentalismo dall’altro. Questo fenomeno non fu limitato all’architettura. Per esempio l’originalissima scultura sassone fu anch’essa interrotta dalla penetrazione del gotico, e il cosiddetto «stile di passaggio» presenta gli stessi fenomeni dell’epica tedesca di questo periodo, col suo materiale venuto dalla Francia, e con i suoi prestiti lessicali, che la deformano in maniera cosí caratteristica. Ma tutte queste interruzioni non potevano non avvenire, giacché non furono un fenomeno dovuto a motivi esterni (come la moda per tutto ciò che fosse egiziano nel secolo xviii). Successe che anche qui un dialetto fu soppiantato da una lingua letteraria, e può darsi che in questo modo qualcosa sia andato effettivamente perduto; ma l’essenza della creazione artistica, ciò che chiamiamo propriamente «stile», viene appena sfiorata dai cambiamenti di gusto. Come una teoria o un gusto artistico non hanno mai prodotto un’opera d’arte (come
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potrebbe difatti un’astrazione creare la cosa piú concreta che esista?), cosí non hanno mai potuto impedirne la nascita. L’Italia si mantenne sempre in una posizione autonoma, anche perché essa era l’unica nazione effettivamente latina. Ci sono però molte differenze tra la zona continentale e quella propriamente peninsulare. Nell’Italia settentrionale (almeno nella sua parte piú notevole, la Lombardia, l’antica Gallia Cisalpina, al di qua e al di là del Po) si parla un dialetto che appartiene al ceppo gallo-romanzo, non a quello italiano, al quale appartiene invece il vicino dialetto veneziano. Analogamente, anche i dialetti architettonici romanici di questa regione hanno molti legami con quelli nordici, e presentano, soprattutto per quanto riguarda il problema fondamentale delle volte, le stesse particolarità «grammaticali». Caratteristiche del tutto diverse presenta la regione veneziana, che è legata alla penisola balcanica anche per ragioni etniche, e nella quale l’elemento illirico e slavo vive ancora oggi in alcuni remoti paesi di montagna. In essa elementi orientali di cultura, soprattutto bizantini, hanno avuto, per ragioni politiche, una vita e una storia straordinariamente lunghe. Dopo che Venezia superò per importanza l’ultima città che fu sede di imperatori ed esarchi, Ravenna, la costruzione bizantina della basilica di San Marco, a croce greca e con cinque cupole, diventò e rimase per molto tempo il modello per costruzioni di questo genere, come era avvenuto, in misura piú larga, per la chiesa a pianta centrale di San Vitale di Ravenna. A Venezia l’influsso orientale improntò di sé tutti i campi delle arti figurative. Per quel che riguarda Roma, si può affermare che la capitale spirituale dell’Italia non ha avuto un vero e proprio Medioevo. Essa ha conservato molti caratteri della tarda antichità, e per quello che riguarda l’archi-
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tettura è rimasta fedele alla basilica a tetto piano del cristianesimo delle origini, e la sua unica costruzione gotica, Santa Maria sopra Minerva, è una costruzione monastica che è ispirata a un gusto straniero. Nell’Italia meridionale, l’antica Magna Grecia, e soprattutto nella Sicilia, in cui un variopinto tessuto culturale era il risultato della sovrapposizione di molte civiltà, predomina il carattere architettonico bizantino incrociato con quello arabo (quest’ultimo forte di una dominazione secolare), che probabilmente si adattò assai bene al carattere del popolo semitico che si era anticamente stabilito nell’isola. Ma già al tempo della conquista normanna cominciarono a giungere nell’Italia meridionale, e soprattutto nel Napoletano, le propaggini estreme della cultura francese e spagnola, che esercitarono influssi sempre piú notevoli, non solo sull’architettura religiosa ma anche su quella profana. È noto che per influsso della poesia provenzale, già prossima al tramonto, sorse in Sicilia la prima scuola poetica italiana, la quale per forza di cose si dovette servire, come l’architettura, di un linguaggio ibrido e convenzionale di imitazione. Ma il vero cuore dell’Italia era la Toscana, l’antica Etruria, dalla quale partirono la lingua letteraria italiana e gl’influssi piú notevoli che l’Italia abbia esercitato su tutto il resto dell’Europa. In Toscana, come pure in Umbria, a Roma e nel Mezzogiorno, si verificò, durante il periodo romanico, un movimento di ritorno verso la civiltà latina, che fu allo stesso tempo qualcosa di nuovo e di molto notevole: fu la meravigliosa «protorinascenza» del secolo xii, che produsse il capolavoro del Battistero di Firenze, e che, con una rapidità sorprendente, possibile solo in Italia, si rivolse all’antichità classica per trarne ispirazione. In realtà la protorinascenza fu animata da uno spirito cosí appassionato e sensibile all’antichità, che non si può parlare di imitazione esteriore.
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Il piú grandioso monumento del romanico toscano è il duomo di Pisa, una basilica la cui struttura si avvicina allo schema centrale, e la cui cupola presenta una pianta che stranamente si deforma in ovale, come per assecondare lo sviluppo del braccio longitudinale. È proprio qui che ricompare in forma prestigiosa quel motivo sud-orientale della cupola, che tanto sviluppo avrà in avvenire e che l’Italia ha conservato con ostinazione pari a quella con cui il gotico l’ha respinto. Naturalmente, il gotico fa la sua apparizione anche in Italia, diffuso dagli ordini monastici borgognoni. Ma la forza espansiva del nuovo stile viene qui ad urtare contro le dighe costituite dalla tradizione nazionale. Il primo memorabile monumento del gotico italiano, la chiesa di San Francesco, eretta in Assisi solo pochi anni dopo la morte del santo, ha già un carattere spiccatamente italiano, nella sua misurata contenutezza che corrisponde esattamente al buon senso del popolo italiano. In questa chiesa la funzione delle pareti, destinate fin dall’inizio ad essere ornate di affreschi, è assai piú importante di quella che le pareti hanno nel gotico del Nord. Come lo stil novo dantesco si contrappone, anche sotto l’aspetto musicale, alla lirica provenzale, dalla quale pure deriva, come qualcosa di assolutamente nuovo e autonomo, ed è fondamentalmente diverso anche dal Minnesang tedesco, cosí anche le cattedrali toscane di Siena, Orvieto e Firenze, si contrappongono alle cattedrali gotiche tedesche e francesi. Sono chiese gotiche, ma di un gotico sui generis, lontanissimo dallo spirito francese. Lo stesso discorso si può ripetere anche a proposito delle grandi chiese gotiche della «Gallia Cisalpina» (per quanto esse siano assai piú vicine al gotico nordico), come il duomo di Milano, la cui costruzione cominciò alla fine del 1300 e continuò durante il Rinascimento;
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oppure San Petronio di Bologna. In tutti i monumenti del gotico italiano, con gran disperazione degli architetti fatti venire d’oltralpe, venne spezzata la rigida struttura logico-tecnica che caratterizza il gotico nordico, con le sue incredibili tensioni spaziali. Questo allentamento è ottenuto sia con l’uso della cupola, elemento assolutamente estraneo al gotico (a Bologna ne era stata prevista la costruzione, che poi non venne eseguita; a Orvieto, dove essa manca, si può vedere persino la travatura del tetto della piú antica basilica aperta a questo scopo), sia attenuando o contrastando il verticalismo e la tendenza nordica a risolvere l’edificio in superfici con decisi sviluppi in orizzontale e in profondità, sia mantenendo la torre campanaria indipendente dal resto dell’edificio, come avveniva nelle chiese paleocristiane. I campanili, che nel Nord rappresentano gli elementi in cui il verticalismo gotico trova la sua massima espressione, in Italia non sono mai organicamente uniti al corpo, e a volte sono addirittura lontani da esso, come a Milano, dove per altro la torre del tiburio si è fusa in maniera assai caratteristica con la cupola. Anche il duomo di Milano, che pure ricorda da vicino il gotico francese (e, data la vicinanza di Milano alla Francia, non potrebbe essere altrimenti), ha molti caratteri latini, antichizzanti, meridionali: le proporzioni fondamentali, per esempio, e perfino il materiale marmoreo con cui è costruito. Il gotico italiano, come ogni stile individuale e autonomo, non può essere giudicato secondo criteri ad esso estranei, ma solo per se stesso. Non si tratta quindi di rivalutarlo, di salvarlo, ma semplicemente di valutarlo per quello che è, e comunque esso non va assolutamente considerato come un sottoprodotto degenere del gotico nordico. La parte che hanno avuto in esso singole individualità artistiche (a differenza della grandiosa anonimità collettiva dell’architettura nordica) è visibile quanto quella avuta da Dante o Petrarca nella forma-
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zione del volgare toscano. Per il gotico italiano non si può quindi parlare di gruppi, ma solo di singole opere architettoniche. Costruzioni come quelle del duomo di Firenze o quello di Siena sono creazioni che hanno caratteri cosí spiccatamente individuali che non è possibile non farne cenno separatamente. La misurata grandiosità degli spazi interni di queste chiese, che può ricordare l’interno delle terme romane, forse le farà apparire troppo nude e severe all’uomo del Nord; le potenti tensioni scaricate sui giganteschi pilastri uniti non piú da archi a sesto acuto, che si slanciano arditi e si spezzano in alto, ma da armoniosi archi a tutto sesto, l’ostinata accentuazione delle linee orizzontali, le pareti massicce, e il preciso orientamento della luce, fatta piovere non piú sullo scintillio colorato delle vetrate dipinte, ma sui vasti dipinti parietali, in cui le figure si individuano potenti nello spazio con la loro ideale corporeità: tutto ciò fa sí che gli interni di queste costruzioni siano diversi da quelli nordici quanto gli esterni. È piú facile invece ritrovare in esse tracce dell’antico linguaggio «latino» delle basiliche, al quale poi la Rinascenza si richiamerà coscientemente. Nel duomo di Siena, come in alcune chiese romaniche, la facciata sovrasta le navate della chiesa senza essere organicamente unita con esse; è diventata una parete ornamentale, una specie di iconostasi posta all’esterno. Nella stessa conclusione della facciata mirabilmente risolta in un sistema di tre timpani, si nota un caratteristico senso della misura, tutto italiano, un gusto, estraneo al Nord, per i rapporti semplici, facilmente comprensibili. Tra le campiture triangolari e quadrangolari, i pinnacoli nordici, ridotti a una forma quanto più possibile razionale, sono una specie di prestito lessicale, adattato a un diverso linguaggio. La Rinascenza svilupperà poi queste «proporzioni» nella teoria e nella pratica, tenendosi però sempre lon-
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